Abbiamo sentito tutti le polemiche scoppiate intorno alle parole pronunciate domenica da Papa Francesco sulle «tre grandi tragedie inaudite» vissute nel XX secolo dall’umanità, e in particolare intorno al termine «genocidio» da lui usato per ricordare la strage degli armeni (oltre un milione di morti) perpetrata cent’anni fa, oltre alle vittime dei regimi nazista e stalinista. A suscitare proteste, richiami di ambasciatori ecc., è stata una lettura in chiave politica degli eventi come se, tra l’altro, gli attuali governi dei paesi in questione fossero responsabili dei massacri del passato o avessero qualcosa da giustificare nella propria attuale condotta, dimenticando o ignorando volutamente il senso fondamentale – assolutamente non politico – del messaggio del Papa.
In realtà, l’accusa lanciata da Francesco anche agli uomini e ai popoli di oggi va ben oltre la politica, giunge a sfiorare gli abissi del male umano, senza nulla togliere alle responsabilità storiche e politiche, ma coinvolgendo ciascuno senza eccezioni in un interrogativo drammatico e inesausto: «Anche oggi – ha detto infatti il Papa – stiamo vivendo una sorta di genocidio causato dall’indifferenza generale e collettiva, dal silenzio complice di Caino», dopo aver ricordato che «purtroppo ancora oggi sentiamo il grido soffocato e trascurato di tanti nostri fratelli e sorelle inermi, che a causa della loro fede in Cristo o della loro appartenenza etnica vengono pubblicamente e atrocemente uccisi – decapitati, crocifissi, bruciati vivi – oppure costretti ad abbandonare la loro terra».
Sono stati proprio alcuni amici ortodossi russi a farmi osservare la diversa prospettiva di lettura della storia, in cui Papa Francesco ha voluto inquadrare le tragedie a cui abbiamo assistito e assistiamo. Un senso che si riassume nella preghiera finale da lui formulata: «Per noi cristiani, questo sia soprattutto un tempo forte di preghiera, affinché il sangue versato, per la forza redentrice del sacrificio di Cristo, operi il prodigio della piena unità tra i suoi discepoli…
La testimonianza di tanti fratelli e sorelle che, inermi, hanno sacrificato la vita per la loro fede, accomuna le diverse confessioni: è l’ecumenismo del sangue, che condusse san Giovanni Paolo II a celebrare insieme, durante il Giubileo del 2000, tutti i martiri del XX secolo». Il tema dell’«ecumenismo del sangue» è stato percepito con emozione da chi, in Russia, ricorda bene i propri «colossei del XX secolo», per usare proprio un’espressione di Giovanni Paolo II.
Questo particolare «ecumenismo» è un’esperienza che porta oggi frutti inattesi, tra la gente, nei diversi ambienti, a dispetto dei conflitti in corso, perché è sempre più evidente la percezione di un’unità che ci lega, in quanto ciascuno di noi è legato alla passione e resurrezione di Cristo. Mi ha colpito che sulle proprie pagine Fb decine di ortodossi, qui a Mosca e in tutto il paese, nel giorno della loro Pasqua abbiano condiviso le pagine russe di Radio Vaticana con le parole di Papa Francesco sulla tragedia armena.
Il noto biblista Andrej Desnickij ha recentemente rilevato, senza falsi toni consolatori: «Nessuno sembra apprestarsi a interrompere i contatti ecumenici internazionali, ma nessuno sembra più neppure vederne il senso. Dal punto di vista ufficiale la Russia è una civiltà ortodosso-islamica autonoma e assolutamente specifica, che sta finalmente ritornando alle proprie fonti, e l’Occidente cattolico e protestante è il suo nemico secolare o perlomeno un’entità totalmente estranea e aliena… Che contrasto con il vivo e sincero interesse per la vita cristiana nei paesi europei che si poteva vedere un paio di decenni fa!», ma non può fare a meno di aggiungere che, dall’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo, nel novembre scorso, si intravede un nuovo inizio.
Un nuovo ecumenismo, in cui non ci si mette «a discutere sul Filioque o sull’immacolata concezione della Vergine Maria, o sul primato del pontefice romano (i punti più dolenti nel dialogo cattolico-ortodosso)», ma ci si incontra innanzitutto sul terreno della propria umanità, dell’amore a Cristo, della «bellezza disarmata della fede». «Vivere questa esperienza – continua ancora Desnickij – non significa scavalcare i confini delle giurisdizioni, ma i confini stessi appaiono meno essenziali rispetto all’unità dei significati condivisi con le persone che si trovano dall’altra parte».
Ecco perché nel giorno della Pasqua ortodossa un ortodosso russo può non aver nessun problema a condividere fotografie di San Pietro a Roma e parole del Papa: siamo un Corpo solo, e questo è molto più vero, concreto e oggettivo delle barriere che tutti abbiamo la tentazione di frapporre, ogni giorno, tra noi e gli altri, e tra noi e la verità di noi stessi.