Di recente ho avuto l’occasione di moderare un incontro pubblico con il filosofo francese Alain Finkielkraut, attento osservatore delle moderne dinamiche culturali, nonché Accademico di Francia. A tema c’era un dialogo ruotante attorno alla parola «avvenimento». Parola che Finkielkraut ci aveva aiutato a riscoprire in una celebre intervista del 1992 e sulla quale lo avevamo già risentito in occasione della mostra su Péguy – il poeta dell’avvenimento – realizzata per il Meeting di Rimini dello scorso anno.
Da subito mi sonno reso conto delle derive che possono condurre a far sì che «andare a un incontro» non coincida col «fare un incontro». Anzitutto la tentazione della curiosità superficiale; come se si trattasse di una forma di spettacolo il cui unico scopo è quello di stuzzicare il gusto e provocare qualche leggera emozione. Poi la tentazione di cercare nell’altro soltanto la conferma di idee e convinzioni che si hanno già. È una sottile forma di strumentalizzazione che impedisce l’apertura e l’accoglienza della novità; certamente uno va ad un incontro con una ipotesi di lavoro, ma se non spalanca mente e cuore a come l’altro risponderà, ben che vada esce dall’incontro uguale a prima. Quanto al ruolo che dovevo ricoprire c’era anche la giusta preoccupazione di svolgerlo al meglio — un Accademico di Francia non si incontra mica tutti i giorni —, che però può scadere nella tentazione di limitarsi a voler fare bella figura.
La serata, poi, ha avuto i suoi aspetti positivi e quelli negativi; come tutte le cose che facciamo noi uomini. Mentre tornavo a casa mi chiedevo se quel dialogo fosse stato per me un incontro. Mi ronzavano in testa i commenti a caldo sentiti alla fine — Mi è piaciuto. Troppo difficile. La traduzione non ha funzionato. Non concordo su quello che ha detto in merito alle vignette di Charlie Hebdo. Mi ha fatto riflettere molto —, ma poi lentamente è emersa la gratitudine di aver dialogato con un uomo leale — cosa non affatto scontata nel gran mondo degli intellettuali — con quello che gli veniva chiesto. Ad esempio, avevo domandato, a lui ebreo non credente: «Lei scrive che secondo i cristiani bisogna sapersi peccatori per ricevere la grazia. Che ruolo ha la grazia nelle sue riflessioni?». E lui aveva risposto: «Pur temendo di deludervi, devo dire che la grazia non ha nessun ruolo per me. Però devo riconoscere che sto riflettendo molto sul peccato originale, cioè sul fatto che l’uomo non può pensare di essere personalmente buono e che ogni male derivi dalla società e che quindi basti identificare una politica giusta per risolvere ogni problema».
E lo diceva con la serietà di chi percepisce tutto il dramma del male e la profondità del bisogno di liberazione da esso. Mentre stavo pensando a questo, mi è arrivato il messaggio di un studentessa di medicina che aveva partecipato alla serata.
Per lei il punto decisivo era stato quando Finkielkraut aveva parlato della gratitudine verso la realtà, cui si contrappone il risentimento che invece domina la nostra cultura. Mi scrive: «Più lo ascoltavo e più ripercorrevo tutta la mia giornata. Oggi, ogni istante mi è stata ridonata instancabilmente la possibilità di scegliere se incazzarmi per il fatto di non essere creatrice di me stessa o aprir gli occhi e accorgermi che la realtà perpetuamente eccede l’immagine. Davanti a uno sconosciuto francese posso riscoprire la mia giornata». Per lei è stato senza dubbio un incontro.