La tragedia avvenuta negli ultimi giorni nel canale di Sicilia è immane e l’imperversare dei particolari non fa che aggiungere orrore, tristezza e smarrimento, provocando un dolore che non può che offendere l’anima. Ma ciò che preme dietro ad una tale tragedia, purtroppo, ha proporzioni ancora più rilevanti. I giovani che affrontano gli imprevisti e i rischi di una traversata in mare su mezzi di fortuna non sono che una parte minima di quanti guardano alle regioni del Nord Europa per sfuggire dalle tempeste di fuoco che si abbattono sui diversi paesi di provenienza: dai disastri dei conflitti interni al mondo islamico alle guerre etniche, alle miserie dell’Africa sub-sahariana, ai campi nomadi. Le cifre sono da esodo, negarlo è da sprovveduti quando non addirittura da irresponsabili. 

Ora, se il termine di “accoglienza” significa qualcosa, l’Italia non può ricevere che percentuali estremamente ridotte, al di là delle quali questa stessa parola non può comprendere che misure d’emergenza temporanea, dove ad un tetto e ad un pasto non può corrispondere né un lavoro, né un inserimento significativo. Chi viene, nei pochi casi nei quali riesce a sfuggire alla strada, inizia una vita precaria e incerta dove, al di là dei casi già noti e delle aree di occupazione, non esistono industrie private pronte ad assumere, né amministrazioni pubbliche che abbiano la possibilità di integrare i nuovi arrivati in attività di servizio. Non mancano storie di buona volontà, né esempi lodevoli di dedizione, ma le cifre richiamano alla realtà di una chiara impotenza istituzionale in molte regioni del Paese.

Questa società che non riesce a mantenere gli immigrati è la stessa che non riesce ad assistere le famiglie dei malati di Sla, che inciampa nelle difficoltà dinanzi ai bambini cerebrolesi ed ai malati incurabili. È esattamente la stessa società che è paralizzata dai costi deliranti della sanità pubblica, dalla percentuale esorbitante delle scuole lesionate ed a rischio crolli, dai trasporti dei pendolari al collasso e dalle aziende in chiusura. È la stessa società dove le emergenze si susseguono e si sovrappongono aggiungendo sconforto, delusione e, nei casi più gravi, amarezza e angoscia.

La richiesta di avere fondi supplementari dall’Europa è certamente un passaggio obbligato, ma non può bastare. Non serve moltiplicare i centri di accoglienza se poi non ci può essere un percorso possibile e, con somma e insopportabile ipocrisia, si lasciano i nuovi arrivati alle lotte tra bande per il controllo degli spazi dell’accattonaggio, ai traffici di beni illegali, alla prostituzione ed agli altri mille rifiuti metropolitani. Non possiamo accoglierli riservando loro l’inferno prossimo venturo di periferie oramai sfuggite di mano. Non possiamo accoglierli abbandonandoli nelle mani della criminalità e delle mille reti del malaffare.

Per di più la stessa ondata mediatica ci impedisce di vedere come dietro il termine di “immigrati” confluiscano popolazioni e realtà umane profondamente diverse tra loro, non di rado segnate da conflitti interni, da guerre di confine, da esclusioni incrociate e da odi consolidati. Ignorare la sociologia di queste popolazioni riducendole alla semplice cornice dei ricongiungimenti familiari, può costituire un’ingenuità i cui esiti rischiano di essere fatali. Non arrivano solo singole persone, famiglie o parti di esse. Accanto a loro si materializzano non solo singole etnie, ma anche reti, gruppi e organizzazioni strutturalmente semplici ma non per questo inefficaci. Queste reti e queste organizzazioni sono pronte ad intervenire là dove le nostre amministrazioni agiranno con esasperante e prevedibile lentezza. Dove non si verificheranno rivolte esplicite — come quelle già divampate nei centri di accoglienza — ci saranno strutture criminali alternative, reti parallele, gruppi di interesse attivi ed efficaci che controlleranno ciò che le amministrazioni locali non saranno in grado di controllare ma, a malapena, di monitorare.

Dinanzi a questa serie di problemi non ci sono che poche certezze, una delle quali appare evidente. La tendenza a semplificare, a pensare che la buona volontà e la corretta amministrazione possano risolvere se non tutto almeno l’emergenza, può costituire un errore fatale. L’idea semplificante che tutto si possa risolvere con la buona volontà collettiva rischia di costituire una vera e propria trappola sociale. In realtà tutte le soluzioni già adottate e quelle in corso di adozione non mancano di validità — è paradossale, ma è così — a condizione che si sappia come ciascuna di queste non solo non è sufficiente, ma apre altri problemi sui quali occorre saper fare fronte e non ci si deve girare dall’altra parte. Si tratta di quello che noi sociologi chiamiamo “coscienza della complessità”: è una brutta medicina, ma serve a non farsi illusioni ed a ragionare non facendo ulteriori danni, più di quanti non ne siano già stati fatti.