L’io, i partiti e il gioco dell’oca

L'Italicum viene presentato come la panacea di tutti i mali in grado migliorare la vita del nostro Paese. Sono giustificate le aspettative che la riforma si porta dietro? GIORGIO VITTADINI

La nuova legge elettorale che sarà votata lunedì viene proposta come qualcosa in grado di determinare in modo prorompente la vita del nostro Paese nel prossimo avvenire. Ma sono davvero giustificati le aspettative e gli scontri così accesi tra partiti che la riforma si porta dietro? La Prima Repubblica è crollata per l’implosione dei partiti che l’avevano fondata: Democrazia cristiana, Partito socialista e Partito comunista che, in nome del senso dello Stato, dopo aver costruito un apparato statalista inefficiente fonte di sprechi e clientelismo, hanno ceduto alla seduzione di soldi e potere.



Sotto l’ondata emotiva degli scandali di Tangentopoli, nel 1993 è stato proposto un referendum per riformare il sistema elettorale che da proporzionale (fino ad allora voluto per garantire la rappresentatività di tutte le anime del Paese) è diventato maggioritario. Con la conseguente costruzione di un sistema bipolare (d’importazione anglosassone) si pensava, da una parte, di poter ottenere una maggiore stabilità e governabilità, e dall’altra di far superare ai partiti la loro crisi di identità. Mentre la sinistra, con questo sistema, sperava di prendere il potere grazie alla sua efficiente macchina elettorale, inaspettato, è spuntato Berlusconi.



Nel 2008 quando ha ottenuto il suo massimo consenso elettorale, la destra berlusconiana ha mostrato tutta la sua inconsistenza culturale che le ha impedito di costruire un’alternativa liberal-popolare allo statalismo in settori strategici come l’istruzione, la sanità, l’impresa, per poi implodere in divisioni interne. La sinistra non ha seguito una sorte migliore, concentrandosi per anni su un’opposizione al berlusconismo completamente priva di contenuti e visione. Anch’essa divisa in risse interne tra fronde popolari estremiste fuori dal tempo e difesa dello statalismo clientelare (peraltro identico a quello del fronte di destra opposto), non ha portato quel cambiamento che era necessario alla politica. L’insofferenza crescente di gran parte della popolazione minacciata dalla crisi, negli ultimi anni, ha fatto esplodere il bipolarismo affermando nuove formazioni di populismo qualunquista di massa alcune anche con rigurgiti xenofobi.



L’involuzione della vita politica descritta fin qui per sommi capi, è l’avverarsi di quanto Augusto Del Noce anticipò negli anni Settanta e Ottanta. Il grande filosofo politico preconizzava che un cattolicesimo ridotto a moralismo, in nome dei valori, avrebbe svuotato l’esperienza sociale e politica dei cattolici, ed anche la sinistra, dimentica della sua matrice popolare e garantista, avrebbe ridotto la sua identità riformista. “Nella duplice elisione del comunismo e del cattolicesimo – diceva Del Noce – la società opulenta dava luogo a un nuovo potere, economico-mediatico, che univa ricerca illimitata del benessere, censura della dimensione religiosa, relativizzazione di ogni valore”. Per questo il tentativo di uscita da questa situazione attraverso un nuovo “partito egemone della nazione” lascia più di un interrogativo.

Il bisogno radicale di riforme strutturali, anche attraverso il superamento di corporativismi di ogni tipo, professionali, culturali, economici, è indiscutibile. Si avverte però il rischio di soluzioni spesso generiche e prive del necessario approfondimento. Governare un Paese come l’Italia, sfaccettato, costituito di realtà locali, ognuna con la sua particolarità e ricchezza, richiede un lavoro e un dialogo approfonditi. Qualcosa che può apparire ancora come una resistenza al cambiamento, ma che in realtà è l’unica strada per ottenere soluzioni durature. 

La complessità della realtà italiana, dove risiede la sua ricchezza e la sua energia, è una risorsa che rischia di essere annichilita dalla tendenza ad accentrare funzioni e potere al governo centrale. E il dolo compiuto da alcuni protagonisti della sussidiarietà – associazioni, sindacati dei lavoratori e di imprenditori, cooperative, enti locali – non può essere usato a pretesto per imporre un rapporto diretto tra premier e gruppo dirigente da una parte e “sudditi” dall’altra.

Quello che ha determinato la crisi della Prima Repubblica e l’incapacità della Seconda di risolvere i problemi non è il fallimento di un progetto politico, ma il crollo di una tensione ideale, di una continua ricerca ed educazione, di un’azione che peschi nella coscienza profonda della persona, non in meccanismi pragmatici. L’impegno politico non può prescindere da una ripresa del percorso educativo che ogni uomo deve fare per non svuotare la sua azione. Il venire meno di una esperienza integrale della persona ha svuotato dall’interno le grandi esperienze popolari, un tempo protagoniste anche della politica italiana.

Per questo anche oggi, ad onta delle mode, se il dibattito rimane confinato al cambiamento degli assetti di potere, magari in un’azione dall’alto senza andare alla radice del problema, si riprodurranno le stesse situazioni che hanno buttato il nostro Paese nella crisi in cui è. Come pensare di ricostruire proponendo valori, senza lo spessore dell’esperienza che li origina e li fa vivere? Occorre un cambio di passo molto più radicale che faccia uscire dal pendolo della politica e dell’antipolitica ma rimetta a tema il senso dell’azione pubblica. La politica può corrispondere al suo scopo se non pretende di essere “salvifica”, ma se accetta di essere solo uno strumento per aiutare i singoli e le realtà sociali a costruire risposte adeguate ai loro bisogni.

E’ ciò che richiamò Luigi Giussani nel famoso discorso di Assago nel 1987 alla Dc lombarda: “La politica deve decidere se favorire la società esclusivamente come strumento di manipolazione dello Stato, come oggetto del suo potere. Ovvero favorire uno Stato che sia veramente laico, cioè al servizio della vita sociale… Politica vera è quella che difende una novità di vita nel presente, capace di modificare anche l’assetto del potere”. La politica deve servire la società e la società contribuire a far crescere l’”unità” dell’io, quell’”elemento dinamico che attraverso le domande, le esigenze fondamentali in cui si esprime, guida l’espressione personale e sociale dell’uomo”. Evitare questo percorso ricercando scorciatoie significa condannarsi a un gioco dell’oca che ogni volta ci riporta più stanchi alla casella del via.

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