«La situazione generale è oltre il disastro», ha raccontato a Vita.it l’operatore di Weworld, una ong impegnata nei soccorsi in Nepal. Ieri il il premier nepalese Sushil Koirala ha ammesso che i morti potrebbero essere più di 10mila, perché ci sono tanti villaggi che non sono stati ancora raggiunti dai soccorritori. Il dramma del Nepal ci resterà negli occhi e nel cuore per la straordinaria dignità di un popolo giovane e povero, che scava con le mani per cercare di strappare alle macerie e alla terra qualche vita o almeno qualche piccolo bene. Volti bellissimi, seppure devastati dalla fatica e dal dolore. 

Tuttavia la tragedia nepalese balza all’attenzione anche per un altro fattore. Il terremoto è come un’impietosa lente d’ingrandimento che mette in evidenza questa contiguità tra due mondi, quello ricco che in Nepal arriva in particolare per affrontare l’Himalaya (ma non solo) e quello povero che oggi affronta la catastrofe a mani nude. I riflettori sul sisma sono stati accesi dai media di tutto il mondo, perché l’Himalaya è una sorta di “colonia” del grande alpinismo internazionale, che ha organizzato un sistema logistico ben collaudato per portare sul tetto del mondo centinaia di persone ogni anno. «Sembra di essere a Gardaland», aveva denunciato qualche anno fa Simone Moro, l’alpinista italiano che nel 2006 aveva compiuto la prima solitaria della traversata sud-nord dell’Everest, salendo la cima dal Nepal e scendendo poi in Tibet. L’attenzione dei giornali è catturata assai più dall’apocalittico spettacolo della valanga che ha travolto il Campo Base che non dalla situazione catastrofica in cui si trova la capitale Kathmandu. Abbiamo esaminato infografiche precise che ci hanno fatto capire come funziona il sistema che garantisce il traffico verso l’Everest, anche perché questa era proprio la stagione più adatta per la salita e quindi tanti occidentali si trovavano ai campi. Un sovraffollamento che provoca anche altre criticità. Proprio poche settimane fa il capo dell’associazione degli scalatori nepalesi Ang Tshering aveva denunciato l’inquinamento da rifiuti lasciati dagli alpinisti. «Una rovina per la purezza della montagna», aveva detto, chiedendo al governo nepalese di intervenire.

Ma in Nepal il terremoto ha sorpreso un’altra tipologia di occidentali: sono le centinaia di coppie, etero o omossessuali, che con circa seimila dollari possono trovare qui una giovane donna pronta a portare avanti la gravidanza. È il sistema delle madri surrogate, e il Nepal è destinazione privilegiata in particolare per le coppie omossessuali israeliane, perché Tel Aviv permette di ricorrere all’utero in affitto solo ai coniugi eterosessuali. Per padri e neonati il governo israeliano ha comunque organizzato un rientro con velivoli militari.

Il terremoto ha messo dunque a nudo lo spettacolo crudele e imbarazzante di questa contiguità tra mondo povero e mondo ricco, anche se ad onor del vero molte delle storie, in particolare degli italiani che sono stati sorpresi dal sisma, sono storie che hanno a che fare anche con la solidarietà. Come quella sorprendente di Fausto De Stefani, mantovano, il secondo alpinista italiano ad aver scalato tutti gli 8mila dopo Reinhold Messner. Lui ha voluto restituire qualcosa al paese che gli aveva regalato la soddisfazione di salire sulle montagne più alte del mondo. E qualche anno fa si è impegnato a costruire una scuola fuori Kathmandu, la Rarahil Memorial school, che oggi accoglie 830 ragazzi. Un impegno da 3 milioni di euro che De Stefani ha raccolto grazie alla Fondazione Senza Frontiere (la scuola non è crollata perché De Stefani aveva investito 130mila euro sui sistemi antisismici). Intervistato in questi giorni, l’alpinista ha detto qualcosa di molto giusto e profondo: «Il vero atto di coraggio oggi non è salire verso la vetta ma scendere a valle. Tende, corde e telefoni satellitari servono molto più ai terremotati che agli alpinisti».