È ancora molto viva in Russia l’eco destata dal discorso di Papa Francesco sui tre genocidi che hanno segnato la storia del XX secolo e la cui memoria non può essere oscurata o negata perché, come ammoniva il Papa, «laddove non sussiste la memoria significa che il male tiene ancora aperta la ferita; nascondere o negare il male è come lasciare che una ferita continui a sanguinare senza medicarla!». A dispetto di interpretazioni in malafede o troppo preoccupate degli equilibri geopolitici, il discorso non era mosso né da preoccupazioni politiche né, tanto meno, dalla ricerca di una qualche vendetta; si trattava piuttosto della ricerca di una conciliazione nella verità, capace di superare, nella pienezza della memoria e del rispetto della verità, l’inutilità e la follia di ogni guerra, così che anche le ferite ancora aperte potessero essere finalmente chiuse.

La preoccupazione unica ed evidente di quelle parole era per le vittime di quei massacri e il desiderio, altrettanto evidente, era che quelle tragedie non potessero più ripetersi. Ed esattamente la stessa preoccupazione e lo stesso desiderio caratterizzano molti dei commenti che quelle parole hanno suscitato in Russia: in qualche caso si è cercato di trarne ispirazione per suggerire lo spirito con il quale dovrebbe essere festeggiato l’imminente settantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale; in qualche altro caso si è trovata una significativa corrispondenza con la necessità della conservazione della memoria.

Sulla questione dei festeggiamenti del 9 maggio (quando appunto si celebra in Russia la fine della guerra) si è sottolineata da molte parti l’esemplarità delle parole del Papa, certamente più cristiane e umanamente feconde di quelle che, rievocando la vittoria, si limitano a trarne indicazioni sulla grandezza dei vincitori; in questo modo, infatti, si trasforma la soddisfazione per la fine delle sofferenze e il trionfo sul male in un motivo di orgoglio statale che, in questo senso, ha bisogno di mantenere aperte le ferite o di aprirne delle altre per continuare comunque ad alimentarsi e giustificarsi. Purtroppo, invece, è proprio questo lo spirito che sta prevalendo nei discorsi ufficiali (sia governativi sia ecclesiastici) e in tutte le iniziative di preparazione all’evento: uno spirito in cui la memoria non è mai innanzitutto una testimonianza resa a una verità più grande, ma è sempre ridotta a uno strumento per l’eliminazione del nemico, come se la guerra non fosse mai finita e, dopo l’eliminazione del nazismo, continuasse oggi contro quelli che un tempo erano stati gli alleati in questa lotta e vengono ora identificati come i “nuovi fascisti”. Senza nemico non c’è lotta e se non c’è una lotta nella quale possiamo mostrare la nostra grandezza scompare anche l’orgoglio che è il solo contenuto della nostra coscienza.

Proprio sulla memoria sono invece esemplari, e potrebbero suggerire una via ben diversa, alcune riflessioni che uno dei maggiori storici russi, Nikita Petrov, ha offerto in un’intervista concessa a proposito della legge recentemente varata dal parlamento ucraino che prescrive «l’apertura di tutti gli archivi degli organi repressivi del regime totalitario negli anni 1917-1991».

Alle sollecitazioni del giornalista che ripetutamente gli chiede se questa iniziativa non sia motivata semplicemente dalla ricerca di una giustizia sommaria e non rischi di scatenare una vera e propria «caccia alle streghe», Petrov ha risposto ricordando innanzitutto che quella della memoria delle repressioni non è una questione che riguarda solo gli storici, ma ha un valore per tutta la società, chiamata ad una «purificazione morale». Restituire un «certo ordine morale» alla società non significa però, secondo Petrov, cercare innanzitutto dei colpevoli da punire, ma chiarire che vi sono certi comportamenti che non possono avere spazio in un paese normale. In questo senso non c’è nessuna caccia alle streghe, anche perché, sottolinea con una certa ironia Petrov, le streghe erano assolutamente innocenti e qui si tratta invece di rendere pubblici dei «materiali storici oggettivi»; e poi, insiste lo storico russo, il problema non è innanzitutto di cercare dei colpevoli, ma di mettere in luce, attraverso questi materiali, dei crimini che sono stati compiuti in nome dello Stato, quindi, fondamentalmente, «in nome di tutti noi». Ora, prosegue Petrov, non esiste uno Stato che possa arrogarsi il diritto di agire in nome dei suoi cittadini senza che questi stessi cittadini possano controllare e giudicare il suo operato.

La prospettiva che si spalanca alla luce di queste riflessioni è dunque ben più ampia di quella che riguarderebbe una pur importante questione storica o anche una opportuna esigenza di giustizia: si tratta piuttosto e innanzitutto non della denuncia dei criminali o dell’individuazione e della sconfitta dei nemici, ma della riscoperta del valore della persona, sempre incomparabilmente «superiore a qualsiasi Stato e ai suoi segreti». Riscoprire questo valore significa poi avere un criterio di giudizio certo non per giungere ogni volta a una nuova vittoria nella quale celebrare la propria grandezza contro il nemico sconfitto, ma per creare un’atmosfera nella quale non ci sia bisogno di nemici, e la persona e il suo valore siano rispettati e salvaguardati prima di ogni altra cosa.