Encuentromadrid, l’evento che le persone di Comunione e Liberazione organizzano da diverso tempo nella capitale spagnola, quest’anno ha invitato Wael Farouq, giovane professore dell’American University del Cairo, musulmano, appassionato sostenitore della primavera egiziana. Dopo vari soggiorni negli Stati Uniti e in Europa, ha un acume speciale nel guardare la società occidentale. Molto critico su alcune delle espressioni odierne dell’Islam, ha sviluppato interessanti ipotesi per spiegare ciò che ci sta capitando in questa parte del mondo.
Farouq ha letto Patrick Smith, saggista che ha avuto un certo successo negli Stati Uniti alla fine degli anni ’90. Smith ha spiegato che nel Giappone del dopoguerra l’imperatore ha continuato a mantenere i suoi attributi religiosi come pura apparenza. È nata quindi la “sacralità del nulla”, un’espressione che, secondo Farouq, descrive al meglio lo stile di vita occidentale. Diciamo di basarci sui grandi principi, i sacri valori della libertà, della ragione o dell’uguaglianza, ma la postmodernità li ha svuotati di contenuto, come è accaduto alla sacralità imperiale. L’accusa è particolarmente acuta perché Farouq l’ha formulata recentemente, quando sono state scritte pagine e pagine in difesa della libertà di espressione dopo l’attacco jihadista di Parigi.
Nella sfera pubblica è obbligatorio sottostare alla “sacralità del nulla”. Non ci possono essere delle identità chiare o una religiosità pubblica. Occorre impedire che chi è differente venga discriminato, e il modo migliore per farlo è far sì che non esistano differenze. Ma questa neutralità è insostenibile.
I valori della repubblica neutrale, ideali della Francia laica (e della Spagna che vuole imitarla), sono stati sopraffatti. Le scuole si riempiono di veli e le librerie di manuali sul buddismo.
Il nulla non può soddisfare la fame di appartenenza, di identità. Per questo, dice Farouq, in realtà la “sacralità del nulla” è stata superata dall’esistenza di due mondi paralleli: il nulla e il sacro. Il pubblico è il campo governato da alcuni valori vuoti, mentre il privato è il luogo del significato. E l’incomunicabilità tra i due campi è quasi assoluta.
Cosa fare in questa situazione? Certamente non sembra opportuno gettare al vento una delle intuizioni della società moderna: la regola che chiede al cittadino, in quanto tale, di esprimersi in termini universali. È sicuramente discutibile la pretesa di privatizzare l’ambito religioso, ma non l’invito a farlo comparire nella vita pubblica in modo comprensibile e utile a tutti, il suggerimento di non prescindere dalla ragione.
Ed è qui che il tema di Encuentromadrid suggerisce un cammino interessante. Vedremo se gli organizzatori sapranno svilupparlo bene. Il titolo di questa edizione è “Infiniti desideri. Desiderio di Infinito”. Presentare il religioso (l’Infinito) come il punto che rende concreto il desiderio umano implica una novità radicale nella storia culturale spagnola.
La tradizione cattolica, imperante soprattutto a partire dal XVI secolo, ha visto con sospetto tutte le aspirazioni umane. La buona dottrina cattolica ha continuato ad affermare che il peccato originale non è riuscito a condannare definitivamente la ragione e la libertà, non ha offuscato il desiderio di bene, di verità e di bellezza. Ma tutto ciò rimaneva molto astratto e nella pratica tutta questa aspirazione e questo desiderio erano considerati come qualcosa di pericoloso per l’esperienza religiosa e per il cammino che doveva essere seguito da un “uomo di ordine”.
Il desiderio era quindi diventato sinonimo di passioni disordinate. L’umano era ed è un materiale da gettare via per avvicinarsi al roveto ardente. E nessuno o solo pochi hanno avuto il coraggio di trarre le conclusioni antropologiche e metodologiche del dogma che con tanta precisione ha saputo vedere secoli fa Sant’Agostino: ogni desiderio è ricerca del più Alto, del più Giusto, del più Bello. Il desiderio porta la ragione al suo vertice più alto.
Questa incomprensione, lungi dall’essere corretta con la psichiatria e la psicologia contemporanea, sembra aumentare. Si parà delle patologie del desiderio, delle sue tirannie, mentre allo stesso tempo si censura il suo centro costitutivo. Intendere l’esperienza religiosa come un’espressione del desiderio fa bene a tutti. Fa bene alla propria esperienza religiosa perché viene percepita come amica dell’umano. E fa bene alla società perché questa esperienza può esprimere e formularsi in termini universali.
Tutti possiamo riconoscerci come essere desiderosi. E in questo modo stimarci come un bene gli uni per gli altri. E, come dice Hannah Arendt, “possiamo riconciliarci con la varietà del genere umano e con le differenze tra gli uomini […)]soltanto prendendo coscienza, come di una grazia straordinaria del fatto che sono gli uomini e non l’uomo ad abitare la Terra”.