L’ultimo appello di Papa Francesco affinché cessi l’indifferenza nei confronti della strage dei cristiani e ci si impegni in un “aiuto tangibile, in difesa e protezione dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, perseguitati, esiliati, uccisi per il solo fatto di essere cristiani”, suona come un invito chiaro e senza mezzi termini alla comunità internazionale ed alle istituzioni che ne fanno parte.
Le parole, ovviamente, non sono scelte a caso: si tratta di “difendere” e di “proteggere”, non quindi semplicemente di sostenere e di essere solidali. Siamo nell’ambito delle decisioni operative e non delle sole prese di coscienza. La comunità internazionale non può “assistere”, “muta e inerte”: si apre quindi tanto un ambito per la presa di parola, quanto un altro per l’azione concreta, dove l’una e l’altra costituiscono i comportamenti diametralmente opposti a quello del silenzio deliberato e dell’inerzia indifferente.
Sempre analizzando le parole del Papa, riaffiorano quelle dette al ritorno dal viaggio in Corea del Sud, il 19 agosto, quando definiva il nemico con il termine di “aggressore ingiusto”. C’è allora veramente da chiedersi se questi non stia indicando un vocabolario specifico per definire la situazione attuale. Caratterizzandola in primo luogo per la presenza di un nemico definito non a partire da quello che ama dichiarare di essere (salafita, wahabita, sunnita), né per il tipo di cultura-religione con la quale si riveste (l’islam), ma unicamente ed essenzialmente attraverso ciò che fa, cioè denunciando gli atti che coscientemente compie.
Sempre in tal senso Papa Francesco delimita anche il modo nel quale occorre rispondere. Ad un nemico definito per ciò che fa non può non contrapporsi un’azione anch’essa definita per ciò che concretamente deve compiere. Si tratta di “difendere e proteggere”, cioè di bloccare ciò che l’aggressore fa, non di impedire ciò che questi è. Allo stesso tempo, il soggetto che deve farsi carico di quest’azione di difesa e di protezione è la comunità internazionale, cioè quell’istanza universalista e transconfessionale che si costituisce in nome dei diritti fondamentali dell’uomo.
Questo tipo di semantica che riduce il soggetto a ciò che fa (e non a ciò che rivendica di essere) si situa esattamente all’opposto di quella che i jihadisti di qualunque brigata perseguono. Per quest’ultimi infatti è la rivendicazione identitaria, assieme a tutto l’armamentario simbolico del quale costantemente si circondano, a costituire il vocabolario essenziale. Le singole azioni non sono che testimonianze della loro identità e non sarebbero comprensibili se questa non ci fosse.
Ad un uso strumentale della religione islamica — un uso tanto più facile quanto più questa manca di quelle difese dogmatiche che solo la presenza di un’autorità universalmente riconosciuta potrebbe garantirle — il discorso di Papa Francesco contrappone i diritti dell’uomo di qualsiasi religione, anche di chi non crede in nulla. Difendendo i cristiani il Papa difende l’innocente: colui che ha la colpa di essere prima ancora di quella di fare.
Questo vocabolario di Papa Francesco è tanto più importante quanto più ha il merito di evitare la trappola degli scenari culturali che spesso fanno da schermo e fungono da riparo, occultando la vera posta in gioco. Ad un nemico che ritiene di operare per una causa, Papa Francesco contrappone semplicemente il peso dei crimini che compie. A chi vorrebbe presentare degli argomenti che fornirebbero la copertura ideologico-culturale degli atti, papa Francesco contrappone la miseria umana provocata da quest’ultimi. A chi inalbera bandiere e concetti egli replica indicando la concretezza degli atti compiuti, atti che, come tali, non hanno che un colore: quello della violenza sugli inermi, i non armati.
Il Papa fa emergere così il volto più profondo e disumano che si cela dietro ogni conflitto: il dolore di quanti ne sono travolti, le ferite che sono loro inferte, il male che sono costretti a subire. C’è una sorta di offesa al cuore dell’uomo che ferisce tutti. Un dolore tanto più atroce quanto più non c’è civiltà che possa giustificarlo. Il vocabolario di Francesco, così rivolto all’essenziale degli atti compiuti — perseguitare, esiliare, uccidere — tale da non definire il nemico per la bandiera che porta ma per le nefandezze che compie, toglie ogni maschera, ogni giustificazione, restituendo a chi uccide, ma anche a chi guarda “muto e inerte” il peso delle rispettive responsabilità.