Tanti fra noi si saranno meravigliati la prima volta che si sono accorti di quella scritta sul biglietto verde da un dollaro: In God we trust, noi confidiamo in Dio. Una scritta che non potremmo mai nemmeno immaginare di vedere su un biglietto da cinque euro, non perché gli americani abbiamo più fede degli europei, ma per la natura, radicalmente diversa, delle due monete.

La verità è, o era fino a ieri, che mai avremmo potuto vedere in America qualcosa come un euro, perché l’euro è la moneta delle banche (private) europee, mentre il dollaro è la moneta dell’America — del popolo americano. 

Nella scritta in God we trust c’è tutto l’orgoglio per la sudata, faticata e meritata supremazia americana sul mondo: la remunerazione divina di un impegno di edificazione che non ha pari nel mondo moderno. 

Tuttavia questo “Dio”, che chiede la preghiera di tutta la famiglia ben unita davanti al tacchino nel Giorno del Ringraziamento, che dio è? E’ un dio americano, è il dio dell’America, è in qualche modo l’America stessa, il suo totem. Essere figlio di Dio significa, per un americano, essere figlio di figli di figli di coloro che diedero il via al miracolo.

E tutti quelli che vennero dopo, italiani o irlandesi, russi o polacchi, e messicani, e portoricani, entrarono a far parte di quell’origine comune, acquisendo nuovi padri e nuovi nonni. E i neri, partecipi fin da Abramo Lincoln — o, meglio, fin dalla loro deportazione — della Storia d’America, poterono cantare I too sing America per voce del poeta coloured Langston Hughes. 

Così, quando un americano diventa ateo, non è proprio come se la stessa cosa succedesse a un europeo. In Europa siamo tutti atei, siamo tutti nichilisti, siamo tutti scettici. 

Da noi se qualche anziana signora col sussidio di povertà dice di credere in Dio e di pregarLo tutti i giorni, anche un intellettuale radical si commuove. Ma se a dirlo è un intellettuale, poniamo un docente universitario di letteratura, allora è più facile che qualcuno si metta a ridere. 

In Europa la fede cristiana convive spesso con i sorrisi di supponenza, in America molto meno, perché per gli americani Dio non è un’entità che ci sovrasta, un Ente Superiore, e nemmeno qualcosa che sta chiuso nell’intimo del nostro cuore (sto parlando di quello che ciascuno pensa quando non ha avuto la fortuna di incontrare qualcuno che glielo insegnasse davvero).

In America Dio è il Dio dei padri, ed è tutt’uno con la nazione. Mi torna in mente quando chiesi a Chaim Potok, il grande scrittore-rabbino, chi fosse un ebreo ateo. Mi rispose che un ebreo ateo è un controsenso, perché Dio per un ebreo è come Garibaldi per un italiano: è Colui che ha fatto la nazione (Potok sopravvalutava Garibaldi).

Perciò colpisce la notizia secondo cui la fede — e segnatamente quella cristiana — tra il 2007 e il 2014 è calata di otto punti, e che i sedicenti atei laggiù sono più di cinquanta milioni, una forza elettorale. 

E’ vero che, da un lato, i sedicenti credenti sfiorano ancora il 70 per cento della popolazione — una percentuale inimmaginabile da noi — e che dall’altro già da molti decenni la religione si era fatta culturalmente inincidente, da una parte come dall’altra dell’Atlantico. 

Permane però questa differenza. Da noi la crisi della fede fu un fatto interno alla Chiesa, qui appare piuttosto come un fatto interno alla nazione. Da noi andò in crisi l’identificazione con la fede e la prassi cattolica, come direbbe un vecchio marxista, da loro va in crisi l’identificazione con la storia americana. 

Gli anni presi in esame, poi, sono significativi perché sono quelli della grande crisi. Evidentemente, in una cultura in cui l’idea di Dio appare maggiormente implicata con le vicende storiche, cresce il numero di coloro che ritengono che per l’uscita dalla crisi vadano ringraziati altri fattori: il carattere del popolo americano — meno apocalittico del nostro —, la politica estera di Obama, l’indebolimento dell’Europa, la lontananza dei fattori di destabilizzazione e così via.

I dati non permettono di riflettere sugli eventuali aspetti positivi di questa discesa. La fede per crescere ha spesso bisogno di momenti critici, ma su questo punto non possiamo dire nulla: anche perché mi sembra che, più che a una crisi, stiamo assistendo a una perdita d’interesse, come se a un modello antropologico tradizionale ne subentrasse un altro semplicemente indifferente agli interrogativi religiosi. 

Forse sono i primi segni d’incrinatura di un grande impero. Per fortuna, la storia c’insegna come proprio queste fratture possano permettere il diffondersi di un’esperienza umana e  religiosa più profonda e autentica. 

Ma, qui, non ci sono leggi storiche che valgano. A decidere del destino c’è solo la presenza e la credibilità dei testimoni della fede: oppure la loro assenza.