“Ho affidato il mio unico figlio, sano e in buona salute, all’istituzione scolastica. Mi è stato restituito cadavere”. La madre di Domenico Maurantonio, lo studente dell’ultimo anno del Liceo scientifico “Ippolito Nievo” di Padova precipitato in “gita” dalla finestra della propria camera d’albergo di Milano all’alba dell’ultimo giorno di visita all’Expo, squarcia come un fulmine il dibattito veemente che in queste settimane è divampato attorno alla scuola e pone una domanda radicale e ineludibile sull’essenza stessa del percorso scolastico.
In verità la signora, ben consigliata, ha velocemente rimosso la frase dal social network e le proteste sono andate avanti in questi giorni come se niente fosse, come se nessuno fosse morto. Eppure il fatto che accada un episodio del genere proprio mentre si discute di scuola e della sua ennesima riforma non è uguale a zero, non è una mera fatalità, ma è il segno di qualcosa da guardare, da cui lasciarsi sul serio interrogare e ferire.
Il tutto, è bene ricordarlo, avviene all’ombra dell’Expo, l’evento made in Italy che punta a rilanciare il paese e che, nella narrazione governativa, è l’esempio di un’Italia che vuole cambiare, che non ci sta più a consegnarsi mani e piedi ai veti incrociati, che ha bisogno di essere profondamente riformata. Le misure del governo, come è stato bene argomentato nei giorni scorsi sul sussidiario, hanno luci e hanno ombre, ma la tragedia di Milano riporta tutto ad una radicalità più profonda e, sinceramente, fino ad oggi poco considerata, derubricata quasi ad una preoccupazione filosofica astratta e pleonastica.
Eppure chi insegna sa benissimo che quanto è successo a Domenico non è niente di più di ciò che ogni docente rischia ogni qual volta accetta di accompagnare i ragazzi in “gita”, a Milano come a Londra, a Firenze come a Berlino. Nessuno sa ancora con precisione che cosa sia accaduto quella notte, ma la frase della signora Maurantonio rivela tutto il dualismo che nella scuola si è creato tra genitori e docenti: non più alleati per il bene di una persona, ma attori di uno strano meccanismo commerciale in cui lo studente è considerato una specie di pacco, di oggetto prezioso il cui unico compito — da parte dell’insegnante — è quello di continuare a proteggerlo, proprio come si fa in casa, proprio come si fa nelle cucciolate.
La realtà, purtroppo, non può essere così. Sulla morte di Domenico, oggi, pesa infatti la totale inconsapevolezza di una generazione che crede di poter controllare i propri figli grazie ai telefonini e alle assicurazioni, di poter dare loro spazio e spago secondo quanto precedentemente stabilito e di poterli tenere al guinzaglio fino al limite che una strana sindrome di onnipotenza fa loro credere di avere definitivamente fissato.
In definitiva è come se una sorte di miopia fosse scesa su tanti genitori, incapaci di ammettere a se stessi l’unica amara verità: il fatto che nemmeno loro, gli onnipresenti papà e mamma, conoscono davvero i loro figli. Nessuno conosceva Domenico sul serio: né i professori, le cui responsabilità nell’episodio saranno evidentemente accertate dalla magistratura, né la famiglia, il cui dolore non potrà essere curato dalla medicina di nessuna sentenza o dal cinismo di nessun risarcimento.
I nostri figli sono degli sconosciuti, sono un “Mistero che gira per casa”, qualcosa che non è definibile in base a quello che è stato loro mostrato e insegnato, semplicemente perché ciascuno di loro è una creatura libera e non diventa quello che noi vogliamo. A onor del vero è giusto ricordare che non è facile avere 14 anni, 16 anni o 19 anni: dietro i desideri, le provocazioni e le passioni di quest’epoca si dipana infatti un dialogo più sottile che ogni adulto fa finta, in realtà, di non avere mai avuto, ma che determina la struttura di ogni emozione e di ogni giudizio dell’adolescente, il dialogo terribile con la morte. Fino a dove, si chiede un giovane, posso spingermi? Dove finisce il mio Io? Dove comincia il male? Fino a che punto le cose, la vita, mi può essere portata via? Fino a che punto posso osare senza che mi succeda niente? Il sesso, la droga, l’alcool, il fumo o le chat online sono solo dei terreni di gioco dove si svolge il più serrato dei dibattiti, il più ossessivo dei conflitti, il più affascinante dei contrasti, quello che ogni essere umano sano si pone in merito al confine di sé e della vita, quello che ogni uomo si porta dentro e che — con grande semplicità — può essere espresso da una domanda banale e disarmante: ma alla fine, Io, perché sono nato? Che cosa ci sto a fare al mondo? C’è qualcuno che davvero mi vuol bene e mi ama?
Una delle scoperte più terribili dell’adolescenza, forse, sta proprio nella constatazione dolorosissima che, in ultima analisi, il mondo possa vivere anche senza di me. Io che pensavo di essere il centro affettivo di tanti e di tante, io che avevo sogni e desideri, percepisco per la prima volta che la ragazza dei miei sogni, i miei amici, perfino mia madre, possono continuare a vivere senza di me. E la domanda sul mio cuore si spalanca, si incendia, brucia fino a diventare aperto grido, aperta sfida a tutto e a tutti. Al sistema e alle istituzioni, all’ipocrisia degli adulti e alle certezze della scienza che vorrebbe tenermi lontano da certe sostanze o da certe abitudini, fino alle terribili esigenze della religione, il frutto più marcio di questo mondo che mi ha fatto crescere dentro alla menzogna che io fossi unico, irripetibile, mentre invece sono solo “uno” di quelli che ci sono, uno che prima o poi passerà.
Come capisco quei ragazzi in quella stanza nell’ultima sera della loro gita del loro ultimo anno, come capisco quanto possano aver alzato il tiro per cercare di capire, di vedere, di scoprire, se questa verità scoperta non fosse altro, o non fosse solo, l’ennesima menzogna. Nessuno sa ancora che cosa sia accaduto, ma tutti sanno — in fondo al loro cuore — che cosa è davvero successo: un cuore voleva battere e non sapeva come fare, un respiro che voleva vivere ed era terrorizzato all’idea che forse non avrebbe potuto farlo nel modo con cui tutti, perfino i ministri, lo stavano illudendo a pensare.
Non si sa se quel cuore e quel respiro fossero di Domenico o di qualche suo compagno, non si sa che responsabilità ci fossero da parte del gruppo, degli altri che dovrebbero proteggerti ma che — in realtà — ti lasciano spesso più solo di prima. È l’epoca, l’adolescenza, delle amicizie che passano, degli amori che finiscono, delle avventure che fanno sognare, delle domande che nessuno osa fare e delle passioni tristi. È l’epoca in cui il cuore drammaticamente attende di più di sapere la Verità, di sapere perché c’è. E forse è proprio questa la colpa di noi riformatori, di noi genitori, di noi sindacalisti: quella di non saper dare una vera risposta all’unica vera domanda.
Entrino pure i precari, cambino pure le governance degli istituti, si modifichino i percorsi formativi. Ma nessuno pensi — di fronte a Domenico Maurantonio — di poter tranquillamente evitare di guardarsi allo specchio e di fare spallucce all’unica questione che realmente conta nella vita di un uomo: “E io che sono? Così meco ragiono”.