Una ragazzina di quattordici anni, che frequenta il primo anno di un istituto tecnico di Pisa, si è vista recapitare messaggi anonimi di disprezzo per il colore della sua pelle, le è stato rubato un libro, fatto poi trovare strappato nel cestino della classe. Sotto accusa sono i suoi splendidi risultati scolastici inammissibili “per una negra” in quanto “non si è mai vista una negra che prende dieci a diritto”: così almeno dichiarano gli anonimi estensori delle lettere, diligentemente nascosti tra i compagni di classe. I giornali parlano di razzismo, probabilmente è così. È tuttavia necessario aggiungere che una tale aggressione è già un delitto in sé, anche quando la vittima ha la pelle chiara, anche quando viene da Siena e non dal Senegal.
Il razzismo non è che la punta di un iceberg, fermarsi a questo rischia di far naufragare tutto nella retorica: in realtà siamo dinanzi all’ennesimo episodio di violenza tra pari, di isolamento ed aggressione di chiunque si ritrovi ad essere isolato per colpa della pelle, dell’obesità o da qualsiasi tratto caratteriale che non coincida con quello prevalente, anche quando questo tratto è l’intelligenza. Il problema è quindi più semplice e più grave al tempo stesso.
È più semplice perché gli autori dell’aggressione non hanno fatto ricorso che al codice elementare di comportamento ordinario, quello che usano tutti i giorni: cerchiamo dei mostri e troveremo degli idioti, perché sono la stupidità, l’idiozia e la superficialità a generare l’orrore.
Ma il problema è anche più grave, proprio perché se un codice di disprezzo così esplicito ha la possibilità di condensarsi in azioni specifiche, fino a rubare libri e strapparli, vuol dire che si percepisce e si pensa come opinione condivisa. Se questi ragazzi avessero percepito l’affetto dei loro compagni per questa ragazza, se avessero visto atteggiamenti di condivisione, probabilmente gesti così inutili e vili sarebbero stati riposti nel cassetto. È più grave perché se l’insieme di tali atti non hanno ancora i nomi dei loro autori, la loro idiozia e la loro superficialità sono ben visibili, così come lo sono quelle dei protagonisti dei mille casi di bullismo che affliggono le scuole alle periferie del mondo civile. È più grave perché questa idiozia ben visibile può veleggiare dentro e fuori la classe, convinta di essere parte dell’opinione comune, accompagnata dall’assenza di una controcultura del rispetto, della stima e dell’accoglienza capace di farle fronte e di contrastarla.
Ma non basta. L’incapacità di accoglienza ed il rifiuto compulsivo e paranoico dell’altro, la regressione agli istinti primari non può manifestarsi in modo così plateale senza essersi prima consolidata in un vero e proprio stile di vita che parte a sua volta da una radicale incapacità di vivere.
Ed è proprio questa incapacità che si traduce in quella di comunicare e di ascoltare, che sprofonda nei sensi di rabbia, nella reazione paranoica verso l’altro a costituire la vera emergenza educativa. Non c’è nessun avviamento alla professione, nessuna conoscenza dell’inglese e dell’informatica, nessuna competenza “via tablet” che possa risparmiarsi l’impegno dell’apprendere a stare con gli altri, passando dal branco alla comunità, dall’istinto compulsivo al controllo di sé, dalla pura reazione alla serena riflessione.
Una tale incapacità di accoglienza tradisce quindi l’incapacità di saper stare nel mondo, di saper leggere la realtà, di saperla apprezzare e di saper comunicare ciò che si è, di sapere ascoltare gli altri, considerandoli un bene ed una ricchezza, non una minaccia e un impoverimento. Trasformare un aggregato di ragazzi percorso da rabbie segrete e segnato da esternazioni compulsive in un consesso civile, capace di praticare le regole non scritte del rispetto di chiunque, è una condizione programmatica essenziale per qualsiasi “buona scuola”, ed è il primo ed il più immediato dei programmi da realizzare.
Ma non c’è nessuna capacità di accoglienza che possa maturare e diffondersi se non è accompagnata da una lettura positiva della realtà, che è una capacità di cogliere il buono e il vero che c’è, sotto ogni degrado. Quel desiderio di vero e di buono che ha spinto centinaia di cittadini milanesi a spendere ore del loro prezioso tempo libero a ripulire il centro di Milano dagli atti vandalici della compulsione organizzata. Lo stesso desiderio di vero e di buono che ha spinto un capitano dei vigili urbani a scendere per strada nell’ennesima periferia d’Italia per proteggere i passanti dalle fucilate di chi – ancora una volta – ha fatto della reazione compulsiva il proprio principio legittimante.
Tra i cittadini di Milano e il vigile urbano di Secondigliano c’è il filo comune di un’attenzione agli altri e alle cose, ad un mondo da custodire e ad una civiltà da proteggere, contro le rabbie infinite e le compulsioni di chi “dieci in diritto” non sa proprio prenderlo, semplicemente perché non ha imparato a vivere.