Giusto cent’anni fa ieri l’Italia entrava in guerra. Da più parti veniamo sollecitati a ricordarcene perché non bisogna perdere la memoria della propria storia, studiare il passato aiuta a capire il presente ed eventualmente ad evitare errori già compiuti; insomma historia magistra vitae. D’accordo, ma cosa evoca in noi la parola «guerra»? Sostanzialmente qualcosa di lontano.
Lontano anzitutto nel tempo. Di quella che chiamiamo «prima guerra mondiale» si parla da qualche mese perché dista un secolo esatto; alla tivù ci sono trasmissioni ad hoc con anche filmati (i primi disponibili), che però vediamo seduti in poltrona senza scorgere fino in fondo cosa li differenzia da un film (“di guerra” ovviamente), se non la cattiva qualità delle immagini. Se poi qualcuno propone di celebrare il 24 maggio come data importante per il costituirsi di quell’identità italiana che il risorgimento aveva sbozzato solo per le classi dirigenti, possiamo essere d’accordo. Ma capiamo anche subito che ciò che dovettero fare i nostri nonni (dico «nostri» pensando alla mia generazione di quasi sessantenni) è radicalmente diverso da quello che tocca a noi; a quel tempo c’era la confusione dei dialetti adesso delle lingue e la fede cristiana che allora accomunava quasi tutti i soldati ora è in gran parte dimenticata dai nativi italiani e sconosciuta alla variopinta e sempre più numerosa massa di chi viene ad abitare da noi; e non si sa bene cosa potrà sostituirla, né cosa potrà fare da cemento all’Italia che verrà.
La guerra, poi, ci appare lontana anche geograficamente. Sì, papa Francesco ripete che si sta combattendo la terza guerra mondiale a pezzi, però tutto sommato rischiamo di pensare che si tratti di un modo di dire, dovuto al suo ruolo di pastore universale, se non di una esagerazione. Qualche sussulto lo proviamo quando bagliori di guerra si accendono vicinissimi a noi; che si tratti della scoperta che uno degli attentatori di Tunisi abitava vicino a casa nostra oppure dell’insensata guerriglia urbana che sporca e devasta la nostra città mentre tutto il mondo la sta guardando perché si inaugura Expo. Sono emozioni che passano in fretta; per il resto la «terza guerra mondiale» pensiamo sia questione di altre nazioni o di altri continenti, di cui magari non veniamo neppure a sapere. In Burundi, per esempio, nei giorni scorsi c’è stato un tentativo di colpo di stato e un inizio di guerra; pochissime righe sui giornali, di cui mi sarei dimenticato subito se non fosse che un mio amico è a lavorare ad un progetto di cooperazione proprio in una zona del Congo vicinissima al Burundi: improvvisamente quel pezzo di terza guerra mondiale che mi sembrava lontanissimo è diventato mio.
Insomma, la guerra è davvero lontana – grazie a Dio – da noi, ma è un mostro sempre incombente: dal primo giorno in cui il fratello uccise il fratello, alla miope illusione dei governanti italiani che cent’anni fa entrarono nel conflitto mondiale sostenendo che occorreva loro qualche decina di cadaveri da buttare sul tavolo delle trattative di pace mentre i morti sono stati più di seicentomila, ad oggi. Esserne consapevoli ci predispone all’unico antidoto da subito alla nostra portata: strappare le erbacce di odio e divisione nel campo che quotidianamente i nostri piedi calpestano.