Oggi alle ore undici si tiene — in una sala di Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica — una solenne celebrazione per il 750esimo anniversario della nascita di Dante Alighieri. Alla presenza del capo dello Stato, parleranno il ministro Dario Franceschini, il dantista Enrico Malato e poi Roberto Benigni leggerà l’ultimo canto del Paradiso.
Non so se ci saranno parecchi deputati e senatori, né posso immaginare se a loro verrà in mente, celebrando Dante, che quando vediamo le loro turbolente discussioni — è successo ancora nei giorni scorsi in occasione del voto sulla nuova legge elettorale — ci ricordiamo della celebre invettiva che il poeta fiorentino ha lanciato nel sesto canto del Purgatorio. Là Dante chiama l’Italia «serva», «nave sanza nocchiere» e, in fine di verso e di terzina, quindi con un’enfasi accentuata, «bordello». Probabilmente il poeta usa termine che indica il luogo — casa di prostituzione — per designare la persona; vuol cioè dire che l’Italia è diventata come una donna che si vende a chiunque abbia denaro e voglia di comprarla. «Bordello», parola greve e sferzante, vuol anche dire che il Bel Paese è diventato un luogo di confusione — non per nulla noi usiamo il sinonimo «casino» per parlare di caos ingovernabile — e di conflitto continuo — «Cerca (chiede Dante all’Italia) s’alcuna parte in te di pace gode» —.
Si parla molto della necessità di maggior coesione sociale, di una migliore intesa in vista dell’uscita dall’interminabile crisi economica, ma l’impressione che si ha (anche se a volte appare fomentata da un gusto perverso dei media) è che trionfi il conflitto, che si cerchi esasperatamente lo scontro, che si sottolineino unilateralmente la diversità di pareri. In questo modo un popolo si disfa invece che costruirsi. E uno Stato non sta in piedi se il popolo che ne abita i confini, è regolato dalle sue leggi e governato dalle sue istituzioni non sperimenta una qualche forma di unità, un certo sentimento di comunanza, un senso di appartenenza.
Sicuramente Giacomo Leopardi aveva in mente le accorate parole dell’Alighieri quando scrisse la canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze. Siamo nel 1818 e l’occasione gli è offerta dalla notizia che un gruppo di fiorentini si è mobilitato perché la patria del poeta, non avendo le sue spoglie — la tomba di Dante, esiliato dalla sua città, è a Ravenna —, almeno eriga un monumento in suo onore. Leopardi elogia questo intento e ne prende spunto per denunciare la gravissima decadenza dell’Italia che vive in «perversi tempi», che è soggetta agli stranieri e che, persino, è costretta a mandare i suoi giovani figli a morire in Russia al seguito delle armate di quel Napoleone che l’ha fatta serva. Al termine della canzone, sconsolato per tanti mali che affliggono la patria, Leopardi si rivolge direttamente a Dante e gli chiede: «O glorioso spirto, dimmi: d’Italia morto è l’amore?».
Nel linguaggio aulico e a volte enfatico della canzone questa parola — amore — spicca per la sua disarmante semplicità. È morta quella disposizione per cui ci si sacrifica in favore del popolo cui si appartiene? Per cui si cerca l’accordo invece del conflitto, la pacifica convivenza invece dello scontro, ciò che unisce invece di quello che divide?
Storicamente le celebrazioni dantesche sono state occasioni importanti per comprendere cosa significhi essere italiani e a quali condizioni un popolo con questo nome possa esistere. Nel 2015 le circostanze sono diversissime da quelle, per fare un solo esempio, risorgimentali, ma l’esigenza rimane la medesima. A meno che come italiani si voglia rispondere positivamente alla drammatica domanda leopardiana: «In eterno perimmo?».