Da Mosca — tutta in preparativi per la sfilata del 9 maggio, nel 70° della vittoria nella «Grande guerra patriottica», guardo le immagini del patetico corteo milanese di pochi giorni fa, dove — commenta un amico tra l’ironico e l’addolorato — «i padri sfilano per ripulire ciò che i figli hanno deturpato e sfasciato obbedendo al loro stesso insegnamento “paterno”… Repulisti farisaico. Chi-cosa potrà indurre — finalmente! — questi “padri” (ora inneggianti alla “pulizia” della città) a un incondizionato e paterno ripensamento su quanto essi stessi hanno “generato”, predicando, insegnando, manifestando?».
In questo maggio moscovita assume contorni sempre più imponenti, minacciosi, l’immagine del «Padre della Patria», Stalin, intorno a cui sta proliferando un crescente consenso: è l’uomo forte che risparmia il rischio della libertà a milioni di uomini. Pochi giorni fa, dopo aver fatto una lezione all’Università di Vladimir sul concetto di educazione di don Giussani, che comporta sempre il rischio di un rapporto, della libertà e responsabilità propria e dell’interlocutore, le domande che mi sono sentita rivolgere dagli studenti mi hanno impressionato per il vuoto, la vertigine, un’ultima inconsistenza sottesa: ma è giusto lasciare a se stessi e agli altri la libertà? È giusto correre il rischio che si possa sbagliare? È mai esistita un’esperienza di educazione di questo tipo che sia andata a buon fine?
È la stessa inconsistenza, al fondo, che si legge nei giovani protagonisti dei fatti milanesi dei giorni scorsi, nati «senza padri», da contestatori a cui già nel 1971 Pasolini si rivolgeva come a una «generazione sfortunata», profetizzando che si sarebbe «trovata vecchia senza l’amore per i libri e la vita»: «E così capirai di aver servito il mondo / contro cui con zelo “portasti avanti la lotta”: / era esso che voleva gettar discredito sopra la storia — la sua; / era esso che voleva far piazza pulita del passato — il suo; / oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo!» (La poesia della tradizione).
Io credo che le risposte più convincenti alle domande degli studenti di Vladimir, a questa loro «vertigine», siano state le parole e le stesse facce di un gruppetto di studenti di pedagogia della medesima università, intervenuti dopo la mia lezione per raccontare dello stage fatto in Italia pochi giorni prima presso la Fondazione Russia Cristiana. Avevano incontrato esperienze scolastiche come «La Traccia» di Calcinate e l’«Istituto VEST» di Clusone, ascoltato lezioni sull’arte e la letteratura italiana e russa (da Dante a Michelangelo a Grossman), visitato luoghi e monumenti con la guida di persone esperte e appassionate. «Ci hanno accolto come se ci stessero aspettando da tutta la vita», è stato il commento sintetico di Nikita; e io non ho potuto fare a meno di pensare che questa è esattamente la definizione di padre — non il padre-tiranno o irresponsabile, ma il padre autentico, quello che nella parabola attende il figliol prodigo.
È proprio questa paternità, al fondo, che ha colpito il gruppetto dei nostri stagisti russi: insegnanti appassionati e «lieti» che dimostrano una grande stima ai ragazzi; «adulti in ricerca» che fanno un cammino e sanno di non essere mai arrivati. «Vorrei anche per me questa posizione, sono tornata “spalancata, allargata”, diversa da come sono venuta», ha osservato Polina. «Educare è accompagnare l’altro mentre fai tu stesso un cammino, — ha sottolineato Galja, dicendo addirittura che ne ha fatto il motto della vita: — introdursi insieme alla realtà nella sua interezza». La stessa Galja ha ammesso di essere rimasta sconvolta — più che da tutte le opere d’arte italiane, che pure l’hanno lasciata senza fiato — ascoltando don Gaetano di Verona, vecchio e malato, dire che ogni mattina si alza curioso di sapere cosa il Signore gli farà incontrare quel giorno.
Oltre a ricordare che il cuore umano è veramente lo stesso, in ogni cultura e latitudine, credo di poter concludere, insieme all’amico che mi ha regalato la poesia di Pasolini: «Con sincera gratitudine a quei nostri padri che non si sono allineati — conformandosi — coi manifestanti di allora e continuano a generarci ora».