Un paio di anni fa un confratello mi ha sorpreso dicendomi “Ho questo ricordo di te, un giovane arrabbiato, in guerra con il mondo”. Prima che me lo dicesse non me ne ricordavo affatto, ma non appena il mio confratello ha condiviso con me la sua impressione mi sono reso conto che era vera. Sono stato un giovane molto arrabbiato.
Questo ricordo mi è tornato alla memoria quando nelle scorse settimane ho visto le immagini di giovani di colore a Baltimore, negli Stati Uniti, dilagare nelle strade con un desiderio irrefrenabile di distruzione e panico. E poi di nuovo mi sono ricordato di aver visto immagini simili di un gruppo più organizzato di giovani uomini che cercano violenza ed intimidazione nella città di Milano, dove risiedo attualmente.
Perché sono così arrabbiati? Perché lo ero stato, io? Naturalmente ci sono le motivazioni contingenti, quali a Baltimora la morte sotto custodia della polizia di un giovane di colore che aveva una fedina penale corposa, ed a Milano l’apertura dell’Expo, verosimilmente una celebrazione dei privilegi di élite e della globalizzazione economica. Ma chiunque abbia osservato questi giovani in azione, ha immediatamente percepito che queste motivazioni potrebbero essere solo una scusa, un pretesto per esprimere una rabbia incontenibile, una sensazione che si è in guerra con il mondo. Anche io mi ricordo di aver trovato le cause in cui esprimere la mia rabbia. Ma era la rabbia che veniva prima, non la causa.
Quel che ricordo della mia rabbia è che sentivo un travolgente senso di frustrazione perché non vedevo alcun modo di essere un protagonista nel mondo, un modo di fare la differenza, di lasciare un segno. Nessuno mi aiutava a trovare una strada per costruire qualcosa di bello, necessario e migliore di quanto era venuto prima. Di fronte all’assenza di una proposta per costruire, quel che tendeva a catturare il mio impegno erano le ingiustizie reali o percepite del mondo, le sue ipocrisie, bugie ed oppressioni. Ed io prestavo la mia mente e la mia voce a movimenti di opposizione, e lo facevo con indignazione enorme e violenta. Un’indignazione così grande, che mi ricordo di un professore universitario conservatore che mi accusò di cercare di ucciderlo (non fisicamente ma cercando di provocargli un attacco di cuore durante le mie proteste di classe).
Che cosa è cambiato? In poche parole, ho incontrato la Chiesa, un luogo dove c’è il senso di una partecipazione ad una forza positiva operante per il bene più grande di sé stessi. Mi viene in mente un momento in particolare. Lavoravo in un campo di sopravvivenza e mentre stavo camminando da solo nei boschi, un giorno mi imbattei per caso in un formicaio impressionante. D’istinto tirai un calcio al formicaio, ma già mentre lo facevo, mi ritrassi.
Guardavo pieno di ammirazione a questa magnifica creazione, costruita con così tanto lavoro, pezzo dopo pezzo, un po’ alla volta. Ed allora capii. E’ così facile distruggere. E’ così facile opporsi. Ma occorre una umanità matura, piena di sofferenza speranzosa e laboriosa per costruire. Scegliamo la distruzione quando sentiamo che non stiamo costruendo nulla.
Questi giovani uomini nelle strade non hanno ricevuto nessuna missione, nessun compito positivo. Nessuno li ha introdotti alla costruzione del regno glorioso di Dio, e così scelgono di distruggere il mondo imperfetto dell’uomo. In Cristo mi scopro vero protagonista della storia, non perché io sia forte o capace, ma perchè in Gesù persino i miei fallimenti, umiliazioni e ultimamente anche i miei peccati e la mia ribellione sono tutti parte dell’opera di Cristo nella mia vita per costruire, qui e ora, il Suo regno che dura per sempre. Come desidero condividere quella missione con tutti, come desidero invitare a questo compito così grande questi giovani arrabbiati, così simili a me.
(traduzione di Silvia Ballabio)