Razzolare bene in casa propria, al di là di come si predica in Europa: sembra questa la lezione da imparare per vedere finalmente ripartire il nostro sviluppo. Almeno stando all’esempio della Germania.

La crisi economica scoppiata nel 2008 ha portato allo scoperto la necessità di reinventare la politica industriale italiana come quella di altri Paesi avanzati. Tutto l’insieme di misure adottate a livello politico statale per promuovere la vita e la crescita delle imprese è chiamato a un inesorabile mutamento di rotta. Per capire a fondo la portata del cambiamento necessario, occorre ricordare cos’è accaduto nei decenni scorsi nei Paesi dell’Europa continentale.

Soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, si è privilegiato un approccio “dirigista” con la selezione di poche grandi imprese meritevoli di sostegno, i cosiddetti “campioni nazionali”, pubblici e privati. Gli esempi in questo ambito sono numerosi, dal settore automobilistico all’aerospazio, agli apparati di telecomunicazioni ed elettrici, alla microelettronica, alla chimica, alla farmaceutica, tanto per citare alcuni esempi. La prevalenza di grandi imprese in Paesi come la Francia o la Svezia può anche essere spiegata in questo modo.

Tradizionalmente, invece, nei Paesi anglosassoni la fiducia nella capacità del mercato di selezionare le imprese migliori e di stimolare quelle potenziali ha portato a schiacciare le politiche industriali verso la tutela e la promozione della concorrenza. A questo si deve la nascita dell’Antitrust. Negli anni Ottanta e Novanta tale visione pro-market, con conseguente svuotamento delle politiche industriali, ha trovato spazio anche nell’Unione Europea che con la disciplina contro gli “aiuti di Stato” ha complicato la vita ai policy-maker di vecchia scuola europea.

Oggi, nonostante i recenti timidi segnali di ripresa, il nostro Paese sembra arenato nelle secche della crisi, in una situazione caratterizzata dalla globalizzazione delle catene di fornitura e dallo sviluppo di nuovi mercati di destinazione (con caratteristiche molto diverse, quali l’Est asiatico, i Paesi arabi ricchi, l’America Latina, la Russia). Come uscirne?

Un paese che ha molto da insegnare in tema di politiche industriali è senza dubbio la Germania, un’eccezione virtuosa nel panorama europeo a partire dagli anni successivi alla ricostruzione. Infatti, cosa ha determinato il noto successo nell’esportazione del manifatturiero tedesco sui mercati internazionali? Il governo federale e i lander, in collaborazione con le associazioni delle imprese e con il sistema del credito, hanno attuato delle misure di supporto al mondo delle medie imprese a proprietà familiare, le cosiddette “Mittelstand”, senza riservare le risorse a poche grandi imprese “campioni nazionali” e differenziando le politiche su base territoriale e settoriale. Il cuore dell’approccio tedesco oggi consiste in un mix di interventi: offerta di efficaci servizi di formazione, ricerca, consulenza legale, soprattutto nelle politiche di innovazione e internazionalizzazione, grande attenzione verso le scuole professionali specialistiche, regole del mercato del lavoro studiate con imprenditori e lavoratori. 

Il tutto rafforzato da un grande attivismo nella Commissione Europea con riferimento ai propri settori di punta; ad esempio, le politiche ambientali adottate dalla Ue a partire dagli anni Novanta hanno nei fatti allargato il mercato della già forte industria “cleantech” tedesca.

Qual è la lezione? L’Italia non dovrebbe ascoltare coloro che in perenne sudditanza psicologica nei confronti dei Paesi anglosassoni e del Nord Europa o succubi di un’Unione Europea confusa e dirigista, suggeriscono di affidarsi a politiche centralistiche fatte di leggi e leggine bizantine, per forza di cose lontane dalla realtà dei singoli settori e territori. E l’esempio della Germania che mantiene autonomia nella progettazione e nell’implementazione delle politiche industriali è per noi interessante, al di là delle posizioni che il suo governo assume in Europa.

Le imprese italiane si muovono in un generale quadro di difficoltà, ma la loro non è una realtà omogenea, anzi la variabilità al loro interno è altissima. Nel mondo della piccola e della media impresa italiana, ancora protagonista dei settori tradizionali e nei settori industriali a media ed alta tecnologia, l’eterogeneità, la differenziazione di prodotto e di modello di business che ha sempre caratterizzato la nostra economia è andata accentuandosi negli ultimi anni, complici la segmentazione della domanda nazionale e internazionale e la disponibilità di tecnologie diverse. Esempi significativi sono il comparto agroalimentare, il settore dei beni strumentali, in particolare della meccanica, e naturalmente i settori tradizionali come moda, arredamento, ecc.

Tra settori diversi e all’interno dello stesso settore (talvolta all’interno dello stesso tipo di prodotto e della stessa classe dimensionale) si osservano imprese con strategie, processi di organizzazione, innovazione e internazionalizzazione con risultati economici molto diversi.

Che senso ha, in questo quadro, ridurre la politica economica DFP (Decisione di finanza pubblica, già Dpef, documento di programmazione economico-finanziaria), a manovre economiche che guardano principalmente ai dati globali di spesa pubblica, al massimo inserendo qua e là misure piccole ed estemporanee a favore di qualche gruppo di imprese? 

Quando ero studente di Economia all’Università Cattolica negli anni 70 il professore di politica economica, Giancarlo Mazzocchi, metteva in guardia da politiche economiche generaliste attente solo a numeri: un conto è incentivare la produzione del burro, un conto quella dei cannoni. In altre parole, le politiche industriali devono essere coerenti con la varietà che si osserva nei territori, nei prodotti, nella caratteristiche delle imprese. Non si tratta di fare sconti alle imprese, ma di permettere al potenziale tecnologico, produttivo e commerciale dei territori e del Paese nel suo complesso di esprimersi. Imprese che operano in diversi settori e territori hanno tratti distintivi diversi che vanno riconosciuti e sostenuti se si vuole rafforzare l’economia del Paese e avere effetti positivi sull’occupazione.

Ciò significa valorizzare l’eterogeneità di competenze, prodotti e risultati che le imprese manifestano all’interno dei settori. Certo che un Parlamento fatto di nominati che non conoscono i territori e i distretti, esecutivi e ministeri che vogliono governare con approccio centralista sabaudo, non possono sviluppare politiche industriali all’altezza della sfida portata dalla globalizzazione e dalla tecnologia. La politica industriale, infatti, più che da ministeri dello sviluppo in mano a mediocre personale politico, viene fatta da commissioni parlamentari in cui partecipano, come era una volta, parlamentari che conoscono e rappresentano il tessuto produttivo locale, e studiano ogni piccolo provvedimento legislativo relativo a ciò che trattano. Si tratta di azioni che vanno costruite insieme ad aziende, associazioni ed enti locali.

Non tutto è clientela, non tutto è interesse lobbistico: questo è ciò che pontificano certi editorialisti perché, si sa, la negatività colpisce l’audience.

Bisogna fare politiche industriali come somma di miriadi di interventi in collaborazione con chi sa e capisce. Anche in questo caso sussidiariamente dal basso.