Scrivo queste parole per Lucian. Chi è Lucian? E’ una persona reale, conosciuta mentre chiedeva l’elemosina a un semaforo. Mi colpì perché era diverso dagli altri: gentile, educato, timido, parlava bene l’italiano. Si capiva che provava vergogna, ma non aveva scelta. Lucian ha venticinque anni, una mamma e due sorelle a carico. Le due sorelle hanno ciascuna un bambino, e una delle due è incinta.

Così è la vita. In Romania erano poveri, ma avevano un pezzo di terra, Lucian studiava per diventare idraulico. Poi il papà morì, Lucian dovette abbandonare la scuola perché era l’unico uomo di famiglia. Per qualche tempo lavorò in una ditta che assemblava mobili, poi venne la crisi e la ditta fallì, allora si mise a fare la guardia giurata, ma anche quel lavoro durò poco.

Venne così il giorno in cui lui e la sua famiglia si videro obbligati a migrare. A Milano Lucian fu accolto in un campo rom, anche se lui non è rom. Poi ci fu lo sgombero del campo e Lucian cominciò a bussare a tutte le porte. Adesso lui e una sorella hanno ottenuto un posto in un campo provvisorio, ma non sua mamma, e Lucian preferisce continuare a dormire sotto i ponti.

Io cerco di aiutarlo, gli do qualche soldo, faccio tante telefonate, lo porto con me e insieme cerchiamo una soluzione, che però è difficile da trovare. Le sue donne pesano completamente su di lui e – mi spiace dirlo – lo stanno trascinando a fondo. “Guardami” mi dice, “sono una persona senza futuro”. E io non so se è vero, ma decido di bermela. Se anche mi stesse mentendo, dico tra me, lo voglio aiutare.

Lucian appartiene alle centinaia di migliaia, ai milioni di persone costrette a lasciare il loro paese per cercare fortuna nei paesi più ricchi. Lucian è una goccia dentro un mare in burrasca, che piano piano abbatterà le nostre barriere egoiste e ingenue (sembra che in questa storia tutti recitiamo un copione troppo prevedibile): viviamo e pensiamo ancora come se al mondo fossimo in due miliardi, invece i miliardi sono sette.

Ma Lucian è diventato per me una persona, un “io”. Solo quando succede questo, cominciamo a comprendere davvero che cosa sia un povero. Solo quando lo portiamo in una pizzeria e ci sentiamo dire “è la prima volta nella mia vita che mangio in un ristorante”; solo quando lo dobbiamo aiutare ad avvolgere gli spaghetti con la forchetta; o quando dobbiamo pregarlo di mangiare almeno una banana perché l’amarezza gli ha tolto perfino l’appetito – solo allora cominciamo a capire che cos’è un povero.

Un povero non è solo, in astratto, uno che non ha niente. Un povero è quella persona lì, è Lucian, sono i milioni di Lucian ai quali cominciamo a dire “tu”. Prima di quel “tu” sono solo dei programmi politici: quello di destra, quello di sinistra e così via. Un povero è uno come me, con la differenza che è povero perché non ha lavoro ma al tempo stesso non lavora perché è povero – perché per lavorare occorre essere in forze, e quindi avere un letto dove dormire, avere da mangiare e sapere che si mangerà anche domani.

Un povero è un uomo che perde a poco a poco il desiderio di uscire da questo circolo vizioso, si rassegna, non lotta più. Karl Marx, un ricco ebreo tedesco, ebbe il coraggio, quasi due secoli fa, di allungare una mano sopra l’abisso che separava e continua a separare, fisicamente e culturalmente, i ricchi e i poveri. Delle sue teorie sappiamo molto, forse non tutto. Conosciamo l’ideologia che ne seguì, ma oggi vorrei, per amore di Lucian, fermarmi a quello sguardo cui non fu estraneo lo sgomento, e la pietà.

Avere uno sguardo vero, almeno intenzionalmente, sulla realtà: questo non è per nulla scontato. Ho sempre creduto di sapere che cos’è un povero, ma solo Lucian mi ha insegnato a guardare un povero – e non soltanto lui, che non ha nulla, ma anche il povero che io, io stesso sono. Il problema non è: quanto siamo buoni?, ma: chi ci insegna a guardare il mondo? Quali sono gli esempi, i santi, che guidano ogni istante i nostri occhi?

Perché una cosa è certa: non appena ci togliamo i santi da davanti agli occhi, non appena smettiamo di guardarli vivere, parlare, agire, sorridere, piangere, subito cominciano i discorsi – quelli dei politici, quelli delle tribune tv, quelli di facebook e, per finire, i nostri.