I risultati delle ultime elezioni amministrative, con la perdita di terreno del partito di Governo, tolgono, se ce ne fosse bisogno, ogni dubbio: non si può cambiare l’Italia senza riscoprire una vera azione politica.

Negli ultimi vent’anni i maître à penser italiani hanno cercato di convincerci dell’ineluttabilità e della necessità di un assetto bipolare anche nel nostro Paese, mutuato da realtà diverse dalla nostra, come quella inglese o americana. Due potenti comitati elettorali dovrebbero esprimere il loro personaggio vincente; tra di loro, nella sfida finale, può così prevalere l’uomo forte che, solo al comando, governerebbe finalmente il Paese in modo indisturbato per alcuni anni.

Dalla salvifica area di sinistra di Occhetto, con la sua gioiosa macchina elettorale, all’evergreen uomo della provvidenza dell’anti-politica, Berlusconi, al remake cattolico-democratico Prodi, al “comunista” D’Alema: tutti i tentativi di creare un sistema bipolare sono falliti.

Non era sbagliato lo schema, ci dicevano trionfanti i profeti delle nuove istituzioni: semplicemente non era ancora apparso il rottamatore giusto. Nessuno infatti dubitava che fosse auspicabile avere capi-partito che nominassero i rappresentanti del popolo, che il Parlamento fosse un inciampo per l’esecutivo, che andasse buttato a mare ogni tentativo federalista ricentralizzando tutti i poteri, che l’unica forma di esercizio della democrazia fosse quella partitica, e che ogni altra forma di rappresentanza e corpo intermedio fosse sinonimo di clientelismo, se non di corruzione.

Anche gli scandali presentati ad arte servivano a sostenere queste tesi, come se solo l’amministrazione centrale dello Stato fosse efficiente e adamantina e come se l’uomo solo al comando fosse il cavaliere bianco della famosa pubblicità di detersivi. “Ascolto tutti, decido solo io” era il motto di Renzi dopo la trionfale vittoria alle elezioni europee.

Non si può non desiderare un politico forte che sappia guidare il Paese fuori dalla crisi. Ma un politico forte non può pensare di governare e soprattutto di cambiare il Paese confidando soprattutto nella sua capacità comunicativa e in collaboratori telegenici. Gli ultimi risultati elettorali ci mostrano, una volta di più, che il mondo è a colori e che le dinamiche sociali, politiche, economiche non possono essere guardate in “bianco e nero”, secondo le estreme semplificazioni che la comunicazione richiede.

La realtà del nostro Paese non è solo complessa, ma contiene un dato macroscopico di cui non si può non tener conto: quella resistenza sorda ad ogni cambiamento che ha radici antiche e che perpetua il mondo gattopardesco della Prima Repubblica quando i cattolici cosiddetti democratici, in regime di consociativismo con certa sinistra, bloccarono lo sviluppo del Paese. Il potere squilibrato di certo sindacato, ad esempio nella scuola, il permanere di una sinistra vetero-statalista, l’edonismo consumista e vuoto di contenuti con vene di razzismo xenofobo a destra, l’apparato burocratico dei ministeri centrali sordi ad ogni riforma: tutto questo non può essere superato puntando sulla comunicazione. 

Per scalzare questo zoccolo duro che resiste al cambiamento e per impedire che l’Italia finisca in serie B, è necessario ricostruire un’azione politica capace di confrontarsi con una base popolare attiva con cui approfondire programmi, discutere le linee, decidere dal basso i candidati rappresentanti che poi la gente voterà. Senza questo sarà difficile ottenere soluzioni ben ponderate e condivise, in risposta ai bisogni reali delle persone, e sarà ancora più difficile che il nostro Paese impari a confrontarsi con le difficili sfide del mondo di oggi.

Proprio perché le sfide sono epocali, i temi in agenda devono essere affrontati in modo approfondito. Come ad esempio quello della scuola, tenendo conto della crescente complessità e ricchezza della società e del mondo giovanile, e del valore della libertà di educazione e di risposte differenziate attraverso scuole autonome e paritarie; a riguardo del sistema universitario decidendosi a rilanciarlo attraverso una competizione virtuosa tra atenei sulla base del merito e su un aiuto reale al diritto allo studio.

E a fronte della crescente differenza tra ricchi e poveri che richiede il superamento dell’antinomia tra welfare state e mercato selvaggio, bisogna affrontare la costruzione di un welfare sussidiario basato sul partenariato tra pubblico e privato sociale e su forme di finanziamento diverse dai trasferimenti a fondo perduto.

Non è tutto facile e ogni scelta è inevitabilmente frutto di un compromesso e di consensi da ricercare, ma la visione deve essere chiara e il lavoro per perseguirla studiato a fondo. Come in tema d’impresa e famiglia. Nell’attesa di un fisco più equo, ad esempio, si può iniziare a intervenire con incentivi selettivi per le imprese che occupano, esportano e innovano, così come per le famiglie che fanno figli, che investono in istruzione, si prendono cura di disabili e anziani. Anche il taglio consistente della spesa della pubblica amministrazione superflua non è più rimandabile, cosa che non può non riportare a parlare di federalismo fiscale distinguendo tra enti locali virtuosi e irresponsabili e superando l’ideologica tentazione di pensare che sia più efficace ed efficiente una gestione centralizzata. A riguardo di politica estera, poi, sul tavolo ci sono temi imprescindibili come quello di una Unione europea meno egoista, meno chiusa, meno legata a interessi di bottega, così come quello di una politica estera italiana più indipendente e meno succube delle gravi amnesie e miopie americane arrivate a fare dell’Isis ciò che sappiamo.

Sono solo degli esempi di come oggi ci sia bisogno di chiarezza nei contenuti tale da rifondare un vero impegno politico che superi la finita, e ormai obsoleta, distinzione bipolarista tra destra e sinistra. Molte di queste idee sono presenti nell’agenda del premier, ma occorre formularle con un approccio meno approssimativo e soprattutto perseguirle davvero, evitando di enunciarle random e poi muoversi in base al consenso. Per questo, per avere il soggetto che le formuli e le sposi, occorre un nuovo diverso patto con i corpi intermedi da cui possono nascere rappresentanti scelti dal popolo e non nominati.

Come sempre accade, la fretta è cattiva consigliera: per edificare una casa solida ci vuole tempo, e bisogna cominciare dalle fondamenta.