In questi giorni a Casal di Principe, il paese in provincia di Caserta, per tanti anni dominato dalla camorra, è stata aperta un piccola “succursale” degli Uffizi. Nella casa che fu di don Peppe Diana, per volontà del sindaco e su progetto del direttore del grande museo fiorentino, Antonio Natali, è stata allestita una mostra in cui vengono presentate opere, in particolare del 600 napoletano. A quelle prestate dagli Uffizi se ne sono aggiunte alcune provenienti da Capodimonte, a comporre un percorso significativo, per qualità e importanza degli autori selezionati. Che significato ha portare quadri del passato in un paese che, seppur uscito dagli anni bui, vive comunque un presente di emergenza sociale? Tra le opere portate dagli Uffizi ce n’erano alcune rimaste lesionate dall’attentato di via dei Georgofili del 1993, come a indicare una comunanza di destino, a suggerire che quella di Casal di Principe è una situazione che ha colpito o sfiorato anche altri contesti. Ma quelle opere ferite indicano anche un’altra comunanza di destino: quella tra l’arte e gli uomini. Ora l’arte arriva a Casal di Principe a far da compagnia e incoraggiamento agli uomini e alle donne di quella terra. A suggerire un percorso che, senza cancellare o dimenticare le ferite, porti a sperimentare ancora la bellezza. A dimostrare come ci sia spazio per la bellezza.

Nel nostro paese spesso i ragionamenti sui beni culturali approdano alla metafora un po’ bieca del “petrolio”. Il patrimonio sarebbe la risorsa da cui poter attingere ricchezza. È una metafora sbagliata, non solo perché irrealistica nelle aspettative, ma perché tradisce il vero senso che il patrimonio ha rispetto alla nostra vita. Il caso di Casal di Principe lo dimostra. Le opere portate là non hanno il “compito” di attrarre turismo e quindi eventualmente un po’ di ricchezza. Arrivano per ristabilire fiducia, per creare la dimensione di una normalità piena in cui c’è spazio anche per il godimento di cose belle. L’arte è un fattore che consolida l’identità, che sviluppa un senso sano di appartenenza, che lega passato e presente, che aiuta un popolo a darsi un suo volto. L’arte non è accademia, non è sovrastruttura estetica. Ovunque, ma in particolare in un paese come l’Italia, l’arte esprime bisogni costitutivi delle persone, dà una forma e un’immagine a questi bisogni.

E non è un dinamismo che scatta solo in situazioni particolari come a Casal di Principe. In questi giorni a Milano sono stati conclusi i restauri durati 30 anni di una chiesa straordinaria, affrescata in buona parte da Bernardino Luini, la chiesa di san Maurizio al Monastero Maggiore. I restauri sono durati 30 anni, e sono stati sostenuti dallo sforzo e dalla sensibilità di una banca, la Popolare di Milano. 

Chi ha visitato questo gioiello, si è certamente imbattuto nei volontari che ne garantiscono l’apertura. Sono volontari del Touring, che con passione e dedizione non formale svolgono questo ruolo. Anche per loro questo luogo rappresenta qualcosa che è molto di più del “petrolio” (l’ingresso per altro è gratuito…): rappresenta un qualcosa a cui si appartiene, un qualcosa che dice in profondità chi siamo e di cosa siamo fatti.

Quanto bisogno l’Italia ha di scoprire questo patrimonio, non semplicemente come tesoro da conservare, ma come bellezza da sentire propria, da conoscere, da respirare, da vivere! Ha detto un grande artista tedesco, Gerhard Richter, che «l’arte è la speranza più alta». Lo è per tutti, ma lo è in particolare per un paese speciale come il nostro. Nei giorni scorsi mi è capitato di visitare uno dei mille musei-gioiello italiani, quello di Villa Giunigi a Lucca. Ero solo tra le sale (anche per l’ora) e invece dei guardiani a “sorvegliarmi” c’era una ragazza, liceale, che stava svolgendo un periodo di stage. Ebbene, nei suoi sguardi, nell’intelligenza di alcune sue osservazioni, nella competenza a volte sorprendente che dimostrava, ho colto qualcosa che si vorrebbe augurare a ogni giovane. Ed è un qualcosa che ha a che fare proprio con la speranza di un futuro in cui ci sia consapevolezza della straordinaria bellezza che ci circonda e da cui veniamo. E che ci “appartiene”.