«Ero affascinato dall’Uomo che avevo incontrato nei Vangeli, portavo sempre con me questo libriccino e me lo leggevo e rileggevo di nascosto, sul metrò e negli intervalli tra le lezioni, ma non mi veniva neppure in mente che potesse avere a che fare con la Chiesa, così acquiescente al regime, formale, chiusa in un ritualismo a me incomprensibile… Poi, dopo una giornata trascorsa sugli sci, un amico mi condusse in casa di conoscenti, e lì incontrai una persona che mi mostrò in maniera evidente che quel Cristo da me tanto atteso e cercato si trovava proprio nella Chiesa. Da allora, non ne sono più uscito». Il protagonista di questa storia è Georgij Cistjakov, docente universitario fattosi poi sacerdote ortodosso, e la persona che gli aveva indicato la via era padre Aleksandr Men’, uno degli apostoli della Russia nel XX secolo, ucciso da ignoti il 9 settembre 1990.
Questo episodio, che gli avevo sentito ripetere più volte, mi è ritornato alla mente in questi giorni in cui a Mosca si commemora da più parti l’anniversario della morte di padre Georgij, scomparso a poco più di cinquant’anni nel 2007. È solo un flash, un’istantanea della catena vivente di incontri che in questi anni in Russia, ma anche in Ucraina, in Bielorussia, in tutti i paesi dell’ex impero sovietico ha intessuto e continua a intessere senza posa una storia segreta, sotterranea, che si sviluppa in parallelo e come in sordina rispetto alla «grande storia», non solo a quella politica ma addirittura alla storia «ufficiale» della Chiesa, ma nondimeno ne costituisce la forza interiore, l’ossatura. E questo di tanto in tanto emerge anche alla superficie della grande storia in fatti, momenti particolari (com’è avvenuto – sempre in questi giorni – nel caso di suor Nirmala Joshi, di cui molti hanno conosciuto il nome e la santità solo in occasione della morte), costringendoci a riconoscere che le categorie entro cui abitualmente pensiamo e guardiamo non sono affatto quelle portanti.
Di padre Men’ e di padre Cistjakov non si parla nei testi di storia, e per anni di loro non si è parlato neppure negli ambienti ecclesiastici ufficiali: in questi ultimi erano sovente ritenuti in odore di «eresia» o almeno considerati personaggi scomodi, troppo «in uscita», troppo liberi da criteri estranei alla fede, troppo inclini a usare misericordia e perdono, ad accogliere anziché a fustigare i peccatori. Ma negli anni è cresciuto un numero impressionante di figli spirituali che essi avevano incontrato in parrocchia, attraverso i mass media e i centri culturali, all’università, in ospedale, oppure grazie a libri e testimonianze, superando in questo modo i «divieti non scritti», il rigido sistema di barriere tra fede e vita sociale eretto con ogni cura dal regime sovietico e poi gradualmente trasformato, ma non certo abolito, nell’ultimo ventennio.
Il libro più importante di padre Men’, Il Figlio dell’uomo, si è diffuso attraverso il samizdat in ogni angolo dell’URSS, e negli anni successivi è stato stampato e «divorato» in oltre un milione di copie.
Questo imponente «passaparola», questa memoria viva che non si spiega altrimenti – proprio come per la prima comunità di discepoli – se non con uno sguardo illuminato dalla Resurrezione, lo stesso che io ho avuto l’invidiabile fortuna di vedere negli occhi di padre Men’, di padre Cistjakov e di tanti altri testimoni, è appunto il «contagio» grazie a cui si diffonde il cristianesimo, e che nel tempo, nonostante limiti e peccati, rinnova e rinverdisce la Chiesa stessa. Così, ad esempio, in settembre, a venticinque anni dalla tragica morte di padre Aleksandr Men’, la Chiesa ortodossa russa del Patriarcato di Mosca spezzerà la cortina di silenzio che aveva calato su di lui e darà il via alla pubblicazione ufficiale delle sue opere.
Padre Georgij aveva un sogno: che un giorno venisse da lui l’assassino di padre Aleksandr e chiedesse, in confessione, il perdono di Dio. Non so se questo sogno si sia avverato durante la sua vita: ma certamente l’esistenza di persone che vivono di queste ardenti speranze dettate da uno sguardo autentico sull’uomo e sul suo destino, alimenta la storia e il suo fluire nell’immortalità, «quest’altro nome della vita, un po’ più forte», come scriveva Pasternak.