Scoprire una storia veramente bella e grande, della cui esistenza neppure sospettavo, non è solo una grande sorpresa, ma un aiuto a cambiare il mio modo di guardare tutta la realtà, rendendola improvvisamente più positiva. Una tale occasione mi è successa proprio oggi! Fatemi però cominciare dall’inizio.

Questa settimana sto accompagnando un gruppo di turisti/pellegrini in un viaggio in Armenia. Il viaggio ci sta facendo conoscere una storia di popolo cristiano molto profonda ed entusiasmante. Stamattina abbiamo lasciato la zona della capitale Yerevan e ci siamo avviati sulla  strada per il nord del Paese, salendo verso una pianura situata a duemila metri. Invece dei 37 gradi e del sole rovente della capitale abbiamo trovato temperature di 6 o 9 gradi. Partendo da un’area metropolitana di oltre un milione di persone, ci siamo trovati in mezzo a vasti panorami, con un orizzonte ampio, ma dove non si vedono abitanti. 

Dopo aver pranzato nella piccola e povera città di Gyumri, abbiamo preso la strada che attraversa le praterie verso il confine con la Georgia e, dopo un’ora su una strada poco agevole, siamo arrivati in un posto sorprendente, un ospedale gestito da un prete italiano e una suora francese. Il prete, don Mario, un Camilliano di origine veneta, ci ha salutato dandoci il benvenuto. Mentre nella cappella veniva celebrata la messa cattolica di rito armeno, lui ci raccontava di come l’ospedale fosse stato voluto da san Giovanni Paolo II in seguito al terribile terremoto del 1988, che in questa zona distrusse praticamente tutto, uccidendo 75mila persone. Costruito dalla Caritas italiana, sarebbe poi dovuto passare in gestione al governo sovietico ma, mentre stavano per aprirlo, l’Unione Sovietica si dissolse e toccò quindi alla Chiesa trovare qualcuno che lo prendesse in mano. Così, letteralmente da un giorno all’altro, il 50enne religioso lasciò il suo posto di economo generale a Milano per venire in queste terre fredde e povere. 

Ci spiegò come fu poi affiancato da suor Noel, che per molti anni aveva lavorato fra gli armeni del Libano, e come i suoi collaboratori abbiano cominciato tutti ad imparare l’italiano per essere più vicini nel lavoro. In 23 anni, infatti, lui non ha fatto molti progressi nella lingua locale. Mi sono stupito nel sentire come il servizio da loro offerto continui a crescere in qualità, raggiungendo sempre più persone con cure sempre più complete, pur non sapendo da un anno all’altro da che parte arriverà il sostegno economico. L’ospedale è pulito e ordinato e la maggior parte dei pazienti riceve cure gratuite. L’anno scorso il primario ha ricevuto un premio nazionale come medico dell’anno. 

A un certo punto una di noi gli ha domandato: ma in questi 23 anni non ha mai pensato di tornare in patria? Senza esitare, don Mario ha risposto che quando era a Milano spesso andava a letto stanco e stufo, senza riuscire a darsi un motivo per cui faceva le cose. Ora può sì andare a letto stanco e stufo delle tante battaglie da combattere, però sapendo sempre darsi un perché. Non pensa di andar via. 

In un posto così povero, isolato e provato, nella periferia di un impero fallito, c’è un luogo bello e accogliente, dove la gente che ha bisogno trova aiuto e cura. Ma ancora più importante, ci sono lì persone che sono grate al Signore per il privilegio di poter offrire questo servizio. Non chiedono altro che poter dare tutto.

Si chiama Ospedale Redemptoris Mater. Scrivo queste parole sul pullman, tornando a Gyumri, e guardo a queste colline che vanno verso l’orizzonte sotto la luce debole dopo il tramonto, più convinto della positività del reale.