Il secondo ritratto della bella galleria di donne che hanno vissuto «in piedi» nonostante la schiacciante pressione del regime sovietico, appena pubblicata da La casa di Matriona (Vive come l’erba…) è dedicato a Ioanna Rejtlinger, monaca e iconografa. Nasce nel 1898 a San Pietroburgo in una famiglia della buona società, emigra in occidente per evitare il peggio, e stringe un forte sodalizio spirituale con padre Sergij Bulgakov, una delle voci più alte della spiritualità e della teologia russe dell’emigrazione. È lui a sollecitarla a tornare in patria; cosa che lei farà, pur consapevole dei rischi e accettando di vivere e lavorare da sola nella isolatissima città di Taškent. Gli ultimi anni della sua vita (muore nel 1988) sono segnati dalla malattia, ma consolati dalla profonda amicizia con un altro grande sacerdote: Aleksandr Men’.

Nel 1938 – quindi quando era ancora in Europa occidentale e precisamente in Inghilterra – Ioanna scriveva nel suo Diario spirituale: «Un acuto, strano dolore. Dolore per la nostra Chiesa e per la Russia. Mi sembra quasi di vedere spiritualmente la crocifissione che sta avvenendo là. È come se il popolo scontasse il proprio peccato. Noi dobbiamo in qualche modo espiare questo peccato». Una frase così apre un abisso e bisogna andarci a fondo.

Anzitutto il dolore perché un popolo soffre. Quanto al riconoscimento della sofferenza del nostro popolo – da quello che ci preme vicino nella quotidianità, alla nazione intera – basta guardarsi intorno. Ma occorre ricordare che il dolore è ben diverso dalla rabbia, dal lamento, dalla violenta recriminazione, dalla cupa rassegnazione che sono i colori normali della reazione di fronte alle difficoltà. Per provare dolore occorre sentirsi parte di quel corpo che si chiama popolo, soffrirne in sé le ferite.

Ferite – e qui c’è il secondo elemento abissale – che sono dovute a un «peccato». Non è solo la particolare sensibilità russa – quella del dostoevskiano Delitto e castigo, per intenderci – che fa dire così alla monaca; è che le sofferenze sociali non sono frutto esclusivo di un malfunzionamento imputabile a meccanismi anonimi o alla sola cattiveria degli altri. C’è una responsabilità propria nella malattia di cui il popolo soffre (è una grande lezione che tutto il dissenso russo ci ha sempre offerto: «Se la nostra patria è malata ne abbiamo responsabilità tutti», dicevano).

Da qui la consapevolezza ancora più abissale: noi – scrive la Rejtingler – «dobbiamo espiare», cioè redimerci da una colpa attraverso una sofferta conversione. Se il popolo soffre di disgregazione, io devo superare l’indifferenza abituale nei rapporti quotidiani; se la povertà cresce, io devo mettere in discussione stili di vita gaudenti ed irresponsabili; se la corruzione dilaga, io devo rivedere l’acquiescenza a piccoli compromessi ambigui; se il nichilismo divora ogni prospettiva, io devo accorgermi del nulla in cui affogo tante conversazioni banali, letture insignificanti, ore e ore vuote.

Niente a che vedere con una auto colpevolizzazione un po’ paranoica. Se le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo, per arrivare al nobile orizzonte della storia non posso che partire dal mio cuore. Senza del quale il sangue circola più lento e più sporco nel corpo del popolo e lo fa soffrire.