La scelta del Pd di Bologna di scrivere al prefetto affinché vieti la manifestazione nazionale del 13 giugno dinanzi all’Ospedale Maggiore, organizzata dal comitato referendario per l’abolizione della legge 194, pone due problemi, uno di forma e l’altro di sostanza.

Nella forma, qualora la richiesta venisse accolta, si costituirebbe un importante precedente, in quanto nella lista delle manifestazioni offensive e provocatorie potrebbero cadere anche altre importanti espressioni della libertà di pensiero: dai gay pride che sembrano fare della provocazione sessuale il cuore della loro comunicazione mediatica, a quelle imposte dai “no” di ogni declinazione possibile (no-tav, no-expo, no vat) che portano la provocazione fino alla distruzione di ogni appendice tecnologica collegata, in modo più o meno immaginario, al mercato mondiale.

Ma anche senza andare così lontano, esistono gruppi di denuncia per i quali la rappresentazione dei fatti così come avvengono costituisce una componente essenziale della loro protesta: è il caso, ad esempio, degli animalisti che cercano di ricordare le brutalità della vivisezione, mostrando le foto raccapriccianti degli animali nel laboratori, o quello dei profughi provenienti da regimi dittatoriali che, sfuggiti all’oppressione politica, riproducono le foto dei prigionieri torturati nelle carceri dei loro paesi. In pratica, nell’intenzione di denunciare un fatto che si ritiene non adeguatamente percepito, è abbastanza evidente ricorrere a documenti o rappresentazioni che lo mostrino, scendendo talvolta anche sul piano della provocazione visiva, presentando l’impresentabile. L’intenzione dichiarata è quella di aumentare il livello di visibilità e quindi poter ottenere la massima eco possibile.

Si può proibire una manifestazione per le espressioni provocatorie alle quali ricorre? Certamente no fino a quando queste non si sostanziano in reati. Perché dovrebbero risultare offensivi e intolleranti i manifesti degli abrogazionisti della 194 e non le foto presentate dagli animalisti? Entrambi non fanno che esibire documenti illustranti fatti che si ritengono ignorati.

Ma accanto alla forma esiste un problema di sostanza: per quale strada il problema dell’aborto non dovrebbe essere noto, visto che quante lo compiono, appartenendo a tutti i ceti e a tutte le età fertili, sono ampiamente rintracciabili tra amiche e parenti? Non siamo di fronte, forse, a qualcosa di radicalmente diverso? Cioè ad un dramma che tutti conosciamo, per il quale – contrariamente a tutti gli altri casi di denuncia – non c’è affatto bisogno di fotografie che lo documentino?

Paradossalmente, nella sua protesta contro la manifestazione degli abrogazionisti, il Pd di Bologna consente di cogliere una verità: quella dell’aborto come dramma, come dolore reale che, proprio per questo, non può essere riproposto senza fare male. Dolore della donna, dolore di un progetto infranto, o che forse non c’è mai nemmeno stato, dolore di una vita che viene ricacciata indietro e annullata. 

Il dramma è reale ed è molto più prossimo di quanto non si sia indotti a credere. Abortire è un dolore – che lo si voglia o no – ed a nulla serve criminalizzare chi lo fa, ma anche imbavagliare chi lo ricorda. Così come a nulla serve cascare nella trappola mediatica di pretendere di rivelare ciò che in realtà è già evidente, come se chi ha già abortito o si prepara a farlo non conosca il triste corridoio nel quale si è incamminata.

Abbandonare il codice dello spettacolo e della provocazione per lasciarlo nelle mani dei narcisi delle rappresentazioni pubbliche, sostituire all’urlo della protesta la denuncia di un dolore, combattendo chi vuole semplicemente occultarlo spacciandolo per liberazione, costituiscono le forme espressive obbligatorie per ogni protesta in nome del diritto alla vita. Dinanzi al dramma dell’aborto più che ostentare fotografie, sembra doveroso recuperare la strada che si può leggere tra le righe della pedagogia di Papa Francesco: quella del vocabolario della misericordia.

Si tratta infatti di accogliere chi incorre in un simile dramma. Così come si tratta di praticare il soccorso, l’aiuto e il sostegno, materiale e affettivo, per chi sceglie di non farlo. Occorre ripartire dai doveri di una Chiesa che deve essere accanto alla donna che soffre, anche quando ha solo quindici anni, anche quando ciò che le è arrivato è immensamente più grande di lei, anche quando, in età matura, è sconvolta da un evento che assolutamente non voleva. Chiesa dell’affetto e della prossimità, che chiama le cose per il loro nome e che, contro ogni banalizzazione, ci parla di una vita che si respinge o che si sceglie di accogliere.