Domenica 31 maggio, ultimo giorno del mese dedicato alla Madonna, in parrocchia c’è la processione. Ci ritroviamo nello spiazzo dell’oratorio dietro la chiesa; intorno i noti palazzi di questa semiperiferia milanese, dietro le cui facciate non sai bene chi e che tipo di vita si muova. La statua della Madonna è infissa su un piccolo carro trainato da quattro persone del servizio d’ordine; altri si danno da fare coi megafoni mobili, che come al solito all’inizio gracchiano o lanciano improvvisi sibili laceranti i timpani e poi lentamente vanno a posto; due o tre signore girano tra la gente a distribuire le candele.
All’ora prevista, le ventuno, si parte: davanti un drappello di chierichetti (il più alto porta il crocefisso), poi i bambini e le bambine che hanno appena fatto la prima Comunione in file di quattro, vestiti come quel giorno, e i sacerdoti; dietro al carro con la Madonna noi, la gente. Siamo qualche centinaio: sorprendente.
Imbocchiamo la strada principale del quartiere mentre una gazzella della polizia blocca le poche macchine in transito; inevitabile pensare che gli autisti possano essere scocciati dall’inatteso intoppo. O, forse, sono incuriositi da quel piccolo fiume di gente che va dietro ad una statua – chissà, magari qualcuno ha ricordato di aver sentito parlare da piccolo della Madonna – e recita il rosario cantando dopo ogni decina. Il disagio è di breve durata perché la processione imbocca subito strade secondarie e generalmente poco trafficate. Anche di pedoni ce ne sono in giro pochi, sono quasi tutti stranieri (il nostro quartiere ne ospita una gran quantità di tutti i tipi): chi rallenta un attimo il passo per guardare, chi estrae il cellulare per una foto, chi prosegue senza apparentemente farci troppo caso. Le finestre dei palazzi intorno sono per la maggior parte chiuse: c’è il ponte e molti sono in gita fuori città; ad alcune è stato esposto un drappo bianco o rosso con qualche lumino. Però qualche finestra si apre e compaiono una vecchia signora, due ragazze, una mamma con in braccio un bambino, una famigliola sudamericana. Tutti guardano con curioso rispetto.
Guardano e vedono un frammento di popolo molto composito: l’anziano vestito di tutto punto che procede appoggiandosi al bastone e la ragazza in short e maglietta, la mamma che spinge il passeggino dotato di ogni comfort e il giovane papà col piccolo in spalla, la vecchia curva che non riesce a tenere dritta la candela per cui brucia la corolla di carta e la signora che si gira a salutare un’amica affacciata alla finestra. Ci sono quelli che pregano attenti e chi non riesce proprio ad evitare di fare una telefonata col cellulare; il gruppetto di ragazzini che si muove in branco e l’adolescente che non apre mai la bocca per pregare ma porta l’asta col megafono evidentemente fiero dell’importanza del suo ruolo.
Davvero un diversificato e normalissimo frammento di popolo, che cammina in una sera già estiva, sotto un cielo semi nuvoloso, e che ad un certo punto – proprio mentre sta cantando «Bella tu sei qual sole, bianca più della luna» – vede sbucare una bianchissima luna quasi piena; come se ringraziasse.
Si dice giustamente che ogni cambiamento sociale ed anche politico deve partire «dal basso». Più o meno consapevole, quel frammento di popolo in processione era un «basso», un microcosmo ben dentro le pieghe della quotidianità di tutti, un permanente punto di partenza per la costruzione.