La recente sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, ma anche i fatti di Irlanda, fino alla recente manifestazione di Milano, invitano tutti ad un momento conclusivo di chiarezza. La chiarezza si fa intorno all’essenziale, a ciò che per ciascuno veramente conta. Tra i miei limiti ho quello di non essere gay e quindi non posso capire, senza rischio di semplificare rendendolo banale, ciò che un gay possa vivere all’interno di se stesso. Proprio per questo, come una larga parte degli altri eterosessuali, credo che il consenso che sembra maturare intorno alle “unioni gay” obbedisca in primo luogo ad un semplice principio di rispetto identitario, un principio che è alla base delle nostre società democratiche.
Si tratta di un consenso di fondo, riconosciuto in nome dei diritti individuali, che solo in apparenza sembra essere estemporaneo, quasi fuori luogo, rispetto all’agenda delle emergenze. In realtà il carattere estemporaneo della richiesta di riconoscimento delle unioni gay rispetto alle emergenze epocali che stiamo vivendo non ha alcunché di paradossale. Al contrario, è proprio questa situazione di emergenza che contribuisce a far passare il problema delle unioni gay per quello che si vuole che sia: un problema semplice, ostacolato solo da pregiudizi omofobi rivestiti di derivazioni religiose. Nulla di più normale infatti che due brave persone dello stesso sesso decidano di ufficializzare e porre sotto l’ombrello del riconoscimento istituzionale l’unione stabile e duratura che hanno deciso di costruire. E sono proprio le stragi in spiaggia del solito terrorista psicopatico, i barconi ricolmi di profughi sfiniti, i figli degli italiani costretti a fare i camerieri nel Kent o a raccogliere kiwi in Australia a fare dell’esigenza presentata dalle associazioni per i diritti dei gay un problema semplice e banale, da liquidare rapidamente per tornare a pensare ad altro, a ciò che veramente ci assilla.
Ciò spiega come le multinazionali del cibo e della vita light (da Vitasnella ad Apple, da Google a Ferrarelle, non senza passare per gli apripista Findus e Ikea) abbiano deciso di sponsorizzare il gay pride di Milano, precipitandosi così in prima fila per riscuotere il consenso dei futuri clienti.
E non ci sarebbe nulla da aggiungere se non si notasse l’assordante silenzio che si cela dietro i cartelloni di ogni gay pride in ogni parte del mondo. Sto parlando del problema dei bambini adottati dalle coppie gay, quando non addirittura commissionati da queste a qualche ragazza che – novità del secolo – può affittare il proprio utero per nove mesi dietro lauta ricompensa.
Il problema non esiste? Le due cose sono separate l’una dall’altra? I diritti dei gay a convolare a unioni civili non costituisce la porta d’ingresso per il diritto all’adozione? Chiedo qui, ufficialmente, di avere la cortesia di dirlo, di dichiararlo. È troppo? No. È il minimo che si possa esigere in ogni democrazia: il diritto alla spiegazione, il diritto alla chiarezza.
Ancora: il problema non esiste perché una persona può esercitare magnificamente il ruolo paterno o materno indipendentemente dal genere che detiene per natura? Non è vero che il ruolo di “mamma” debba essere svolto dalle donne e quello di “papà” dagli uomini? Chi continua a sostenerlo sarebbe preda di una semplice convenzione culturale? Bene, quanti pensano questo, oltre a mettere facce e nomi, spieghino anche perché: anche su questo chi decide ha il dovere di dare delle spiegazioni.
Ripeto qui quello che già ho scritto più volte: non abbiamo nessuna prova che le adozioni da parte di coppie gay non costituiscano un problema. Non abbiamo nessuna prova che un bambino, fatto nascere da una madre declassata ad “utero in affitto”, svezzato ed allevato da due uomini, non presentii seri problemi psichici una volta arrivato in età adulta. Non abbiamo nessuna prova che una bambina data in adozione a due lesbiche possa non avere seri problemi di identità nel corso del suo sviluppo. Non abbiamo nessuna prova che la scelta di adozione compiuta da due transgender non provochi conseguenze incalcolabili per il bambino che viene loro affidato, una volta aperto inopinatamente l’ombrello del riconoscimento dell’unione civile. Quanti affermano il contrario danno prova di sconsideratezza e di irresponsabilità. Il principio di precauzione, quello che, per intenderci, adottiamo quando si tratta di Ogm o di centrali nucleari dovrebbe valere a maggior ragione quando si tratta di essere umani.
Continuare a declamare la bellezza e la tenerezza dell’amore omosessuale e del diritto alla sua istituzionalizzazione, nascondendo all’opinione pubblica i rischi connessi all’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali e quelli che si celano dietro la pratica dell’utero in affitto, costituisce una vera e propria operazione di occultamento, un capolavoro ideologico di “falsa coscienza” degno di uno studio sulle moderne ideologie.