Qualche settimana fa ero dal mio parrucchiere, Giovanni, seduta ad aspettare il mio turno. Leggevo il giornale e giocherellavo con il mio smartphone. “E’ ora di finirla — lo sento dire ad una cliente —. Tutti questi immigrati dobbiamo rispedirli a casa loro. Anzi, meglio, a casa di Alfano che merita solo di essere messo su un’isola deserta con i coccodrilli”. E poi via con una serie di colorite osservazioni sul ministro, sulla politica del governo, sul fatto (che sento citare da quando avevo 5 anni) che le case le diamo agli immigrati e non a tutti quegli italiani che non hanno un tetto sopra la testa. 

Ho sempre mal sopportato le osservazioni grossolane e non documentate. Ho sempre ritenuto pura propaganda la comparazione tra gli italiani senza casa e l’assistenza agli immigrati, da qualunque parte essi arrivino. Un conto è il rispetto della legalità e delle regole del nostro Paese (che, peraltro, in molte occasioni siamo noi italiani i primi a non rispettare), un altro sono la gestione dei flussi migratori, le analisi politiche, le soluzioni che si possono trovare. Dato che non avevo voglia di polemizzare, mi sono limitata a scuotere la testa e a continuare la lettura del mio giornale. Mezz’ora più tardi, mentre mi stava tagliando i capelli, la discussione con Giovanni è tornata sullo stesso tema, ma da un altro punto di vista, quasi inconsapevole. Stavamo chiacchierando delle nostre famiglie e delle strade che prende la vita. “Tra qualche giorno — dice Giovanni a un certo punto — devo andare al matrimonio della figlia di mia cugina Concetta. Fa due matrimoni, uno in Germania, quello ufficiale, e poi una grande festa in Puglia, a casa nostra. Eh sì, perché mia cugina Concetta, ormai più di trent’anni fa è emigrata in Germania in cerca di fortuna. Dal nulla ha aperto un ristorante. All’inizio chiamava sua mamma a Bari piangendo, perché voleva tornare a casa. Ora non tornerebbe per nessuna ragione al mondo e i suoi figli parlano solo tedesco”. 

Ho sorriso. Da sola. Per un attimo ho pensato di dirgli che se qualcuno avesse pensato di trattare sua cugina come lui pretendeva di fare con gli immigrati di oggi, forse questa bella storia non sarebbe mai stata scritta. Forse il mese prossimo non sarebbe andato a nessun matrimonio italo-tedesco. E forse sua cugina non sarebbe diventata una piccola imprenditrice di successo vicino a Colonia. Ma poi, anche questa volta, forse sbagliando, ho taciuto, pensando che non avrebbe capito. O che si sarebbe offeso per il paragone. 

Mi sono chiesta, come faccio spesso, perché non proviamo mai a metterci dalla parte dell’altro. A ragionare, prima di esprimerci e ferire le altre persone. A documentarci prima di sparare sentenze su argomenti complicati, difficili e facilmente soggetti a strumentalizzazioni come quello dell’immigrazione. 

Per questo motivo mi piace concludere questa breve riflessione citando le parole di Claudio Martelli che nel 1989 fu il primo a regolamentare questo problema, già allora con mille polemiche. “L’immigrazione — ricorda Martelli in Ricordati di vivere — se ben governata, è una risorsa decisiva per un paese in crisi di natalità e con la popolazione più vecchia del mondo. L’immigrazione è il volto umano della globalizzazione, è il sesto continente, un continente in movimento: ogni anno duecento milioni di persone lasciano il paese di origine alla ricerca di un posto più accogliente di quello in cui sono nate”. 

E ancora: “L’immigrazione va governata, non subita; e l’unico modo per farlo è cooperare allo sviluppo dei paesi da cui proviene il grosso dell’immigrazione e stabilire rapporti costanti, costruttivi, sì da governare i flussi. E’ stupido e inutile aprire gli occhi solo di fronte alle conseguenze e non alle cause delle diseguaglianze che dividono il mondo. E’ vana illusione pensare di poter risolvere il problema dopo, a valle, come lo sarebbe cercare di asciugare l’acqua sul pavimento lasciando aperto il rubinetto”. 

Siamo stufi di stupidi e illusi. Abbiamo bisogno di uomini e donne in gamba. Intelligenti. Aperti. E con la voglia di scrivere i prossimi capitoli della storia dell’Europa guardando avanti e non nello specchietto retrovisore.