In questa mattina grigia, calda e umida, come le peggiori che New York sa offrire in estate, mi sono capitate sotto gli occhi delle immagini della mia hometown, Pesaro. Il porto, la spiaggia al primo chiarore con il mare piatto come un asse da stiro, le colline dipinte di ginestre e girasole… 

Bellissimo, tutto bellissimo. Quando arriva la buona stagione il richiamo si fa potente. Anche qui a New York siamo circondati dall’acqua, anche qui la natura e la mano dell’uomo hanno fatto cose straordinarie, ma per chi c’è nato, quella spiaggia, quel porto, quelle colline sono un po’ come il grembo materno che ti ha portato in questo mondo. E il  mare come il liquido amniotico che ti ha custodito. Guardo quelle foto e tutto mi sembra bellissimo. Eppure non è che Pesaro sia questa gran meraviglia… Quanti posti obiettivamente più belli ci sono in Italia e nel mondo.

Che cos’è che rende le cose belle? Com’è che una stessa cosa, uno stesso volto, una stessa circostanza possono affascinarci al punto di toglierci il respiro ed altre volte lasciarci indifferenti se non peggio?

Durante l’estate, oltre a guardare le foto di Pesaro ed altre cosette, lavoro più del solito, e sono quotidianamente a contatto con teenagers che arrivano un po’ da tutto il mondo per imparare l’inglese e scoprire questo mondo e la sua gente. Almeno questo è quel che desidero io per loro, non necessariamente quel che i nostri ospiti hanno in mente. E’ una grande sfida. Sì, è un business, ma è anzitutto una grande sfida. Perché le cose sono lì, pronte a farsi scoprire, abbracciare, ma troppo spesso la porta di curiosità e desiderio è chiusa. E senza curiosità e desiderio non si vede altro che quel che si pensa già di conoscere. Quel che pensiamo di conoscere è quello che vogliamo, tutto il resto è senza valore. E non è così solo per i teenagers.

Questa mattina, mentre ripensavo alla mia hometown e dialogavo con questi ragazzi mi è venuta in mente una canzone di Bob Dylan che avevo imparato a memoria quand’ero ragazzino io. Dylan ci dice una cosa molto semplice, una cosa che abbiamo sperimentato tutti. Ci dice che lo sa che c’è un’infinita bellezza in quel che vede dalla sua finestra. Il ruscello che scorre, gli alberi, l’arcobaleno nel cielo… Lo sa perché l’ha vista, l’ha toccata con mano. Ma oggi no. Oggi quelle cose non vogliono dire nulla. Persino il proprio nome suona estraneo perché non c’è più lo sguardo dell’amata. Lo sguardo! Perché gli occhi possano vedere occorre lo sguardo dell’amata, occorre che qualcuno ci voglia bene. Allora tutto si trasforma, tutto diventa un invito, una scoperta, una meraviglia. 

Romano Guardini lo diceva con altre parole: “Nell’esperienza di un grande amore (…) tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito”.

Ognuno lo dice a modo suo, così come riesce ad esprimerlo, ma ognuno ne ha bisogno. Ed è un bisogno insopprimibile. Non è forse vero che quando ci sentiamo voluti bene tutto si trasfigura?

Guardo quelle foto e so che non è una questione di nostalgia. Cosa mi servirebbe illanguidirmi nei ricordi? E cosa c’entrerebbero quel porto e quelle colline con i teenagers che mi circondano? Guardo quei ragazzi e porgo loro la mano, offro il mio sguardo, nella speranza che quella curiosità e quel desiderio che per grazia di Dio e testimonianza di uomini ancora vibrano in me, possano afferrare anche loro. E cambiarne lo sguardo.