Schiavi delle reazioni

Le storie di cronaca prendo sempre il sopravvento, gli episodi tragici occupano uno spazio di rilievo nelle prime pagine della stampa nazionale. Riflessioni di SALVATORE ABBRUZZESE

Come ogni estate la cronaca prende il sopravvento e i singoli fatti, mesti e tragici al tempo stesso, presenziano le pagine della stampa nazionale. Così tra la crisi greca e le dichiarazioni del FMI esplodono con cadenza quasi quotidiana le notizie di delitti efferati e di insensatezze infinite. Dal muratore di Asti al deejay di Napoli, passando per il giovane albanese di Sant’Angelo in Vado si assiste all’esplosione di individualità che vivono dentro la spirale delle reazioni compulsive, dove il gesto dettato dagli impulsi sembra legittimarsi da sé, producendo disastri e spezzando vite.

Una tale legittimazione dei propri istinti sembra apparire con tanta più frequenza quanto più è alimentata dalla percezione di essere in balia di circostanze penalizzanti, tanto più insopportabili quanto più percepite come illegittime. Dietro alle reazioni compulsive alberga l’idea di un primato del fato casuale, arbitrario e proprio per questo scatenante tutte le reazioni concretamente possibili.

La cronaca dell’ultima settimana ci restituisce così degli episodi che, pur diversi tra loro, sono in realtà accomunati non solo dall’esito tragico che li ha contraddistinti – l’assassinio di innocenti – ma anche dall’implicito diritto a reagire dinanzi ad una realtà cinica che “merita” una reazione. In ogni caso si è dinanzi ad una storia a sé, ad una dinamica del delitto di volta in volta specifica; ma tutte le vicende sono comunque accomunate dalla legittimazione implicita del diritto a reagire. Che sia quello di recuperare l’onore offeso o di risanare lo stato di miseria o infine di regolare un diverbio dal quale ci si sente discreditati, la reazione violenta sembra avere il diritto di iscriversi pienamente nell’ambito degli atteggiamenti possibili, per quanto delittuosi possano essere i comportamenti che ne conseguono.

Nessuno dei protagonisti sembra comunque essere capace di definire le proprie responsabilità. Al contrario, ciò che emerge sono le dimissioni da qualsiasi ruolo rispetto a quanto è accaduto: da qui la serie dei ”non credevo”, ”non volevo”, ”non sapevo”. Chi si esprime così sono proprio quanti, cedendo agli impulsi, sono diventati dei veri e propri assassini. Come se il male appena fatto non appartenesse loro, come se non fosse una loro opera. L’elaborazione della sindrome giustificatoria arriva qui a produrre un vero e proprio fantasma: ”non ero io, non ero in me”. All’io che costruisce ed opera si sostituisce il ”non io”, quello del quale non si è responsabili. A questo ”non io”, al quale si accreditano gli esisti nefasti delle derive della ragione, sembra del tutto normale il cedervi.

Ed è proprio qui che c’è da interrogarsi. Se il male c’è sempre stato, se i delitti stupidi e orribili al tempo stesso (ogni delitto lo è) sono stati sempre compiuti e la nostra epoca non contiene più nefandezze di quante ne siano state registrate in quelle che l’hanno preceduta, colpisce comunque la capacità da parte dei responsabili di delitti e follie di vario ordine e grado il ritenere che un tale appello al ”non io” sia del tutto accettabile. Alla legittimità all’accesso alle proprie pulsioni, al diritto allo sfogo comunque manifestato, dall’aggressione al furto supportato da ”giusta causa”, dinanzi all’eccedenza del male commesso, si profila l’esibizione del “non io”, rappresentato dal consueto ”non volevo”, ”non ero in me”. Si assiste così ad un completo sdoganamento di questo vero e proprio fantasma che dalle dichiarazioni degli assassini transita nelle memore difensive degli avvocati, fino a diventare argomento del dibattimento in Tribunale ed avere un peso nella formulazione delle sentenze stesse.

Siamo allora dinanzi a qualcosa di più di semplici comportamenti delittuosi. Tutti gli atti direttamente o indirettamente omicidi, facendo appello al non-io rivelano quanto la dimensione compulsiva del soggetto benefici non solo di una sorta di tolleranza, ma possa addirittura valere come argomento per decomprimere quanto è in realtà accaduto. Si finisce così con il fare dell’aggressore la ”seconda vittima”, come se, appunto, fosse stato un ”altro” a compiere e mettere in opera le folli atrocità, mentre invece è proprio il primo ad esserne l’unico responsabile.

La legittimazione del ”non io”, il diritto a lasciare in libertà le proprie pulsioni come altrettante espressioni in qualche modo legittimate, fino a dismettere i panni dell’assassino per delegarli al proprio ”non io”, diventa così uno dei segni della nostra epoca, una delle derive nelle quali ci si imbatte con sempre maggior frequenza, l’espressione più chiara dell’evanescenza di un soggetto che da persona si dissolve in un aggregato di semplici reazioni.

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