L’irrevocabile distanza critica

Cosa resta oggi del valore educativo dei corpi intermedi? Nonostante scandali e collateralismo coi partiti, sono ancora un esempio di dedizione al bene comune. GIORGIO VITTADINI

Cosa sarebbe l’Italia di oggi senza quegli ambiti di relazione umana libera, solidale, in cui vengono affrontati in modo organizzato i problemi che più mettono alla prova la vita, come povertà, malattia, solitudine, bisogni di tutela, disagio di ogni tipo? Cosa ne sarebbe dei due milioni di poveri che ogni giorno vengono sfamati dalla Rete Banco alimentare se venticinque anni fa questa Onlus non fosse mai nata?

La storia del nostro Paese è profondamente intrecciata con realtà come queste e oggi più che mai, in una fase storica di obbligata riduzione della spesa pubblica, è necessario concepire (o tornare a concepire) questi soggetti sociali come veri e propri partner dello Stato, nel perseguimento degli scopi del welfare e dell’educazione. Parte della soluzione, insomma, non del problema, come pensa chi, sulla scorta degli scandali che hanno coinvolto alcune di queste realtà, auspica il ritorno di un centralismo statale dal pugno duro che elimina ogni intermediazione tra cittadini e Stato e considera di utilità pubblica solo ciò che è gestito dallo Stato.

A meno di non essere affetti da Illuminismo fuori tempo massimo, come quello espresso dalla recente legge francese sullo spreco alimentare che obbliga gli esercizi commerciali, pena multe salate, a non gettare il cibo invenduto e a stipulare accordi con le associazioni che si occupano di recuperarlo per donarlo ai poveri.

Pensare che per risolvere i problemi sociali si debba far leva sull’azione coercitiva dello Stato invece che sul sostegno alle realtà di base nate con lo scopo di educare al bene, significa non tener conto di come è fatto un essere umano ed affidarsi a scorciatoie destinate a fallire. Come è accaduto con gli interventi assistenziali contro la povertà fatti dai Democratici americani negli anni 60, interventi di massa che portarono alla nascita di ghetti incubatori di tensioni sociali che vediamo ancora oggi.

Più ardua, più lunga, più lenta è da sempre la strada dei corpi intermedi: una educazione quotidiana della singola persona ad amare il bene dell’altro, che nasce dalla commozione che si prova quando si guarda qualcuno che “sembra nessuno”.

Questa rivoluzione culturale non riguarda solo la concezione dello Stato verso i corpi intermedi, ma innanzitutto il modo in cui gli attori di questi ultimi devono concepire le loro opere. 

Al di là degli scandali e nella positività che comunque permane non si può non vedere una loro generale crisi ideale, i cui sintomi sono molto antichi e si possono identificare nel collateralismo politico progressivo avvenuto nella società italiana e un po’ in tutte le società occidentali con la nascita dei grandi partiti di massa. 

In Italia, nel dopoguerra, i corpi intermedi hanno sempre più fiancheggiato i partiti, perdendo le ragioni e le modalità originali con cui erano nati, sempre più strumento per il consenso elettorale dei politici che li “proteggevano”. I corpi intermedi sono diventati, poco o tanto, cinghie di trasmissione dei partiti politici in un palese scambio: tu mi aiuti a perseguire i miei scopi benefici io ti assicuro voti per governare.

In altre parole, si è persa “l’irrevocabile distanza critica” dal potere e dalla politica: nella migliore delle ipotesi nell’illusione di poter incidere di più occupando spazi di potere, nella peggiore, per il fascino subito di un potere per se stessi. Ci si è ridotti al ruolo di sacrestani della società, pensando che solo il controllo di consigli comunali, regionali, parlamento, banche e quant’altro potesse permettere di incidere sulla storia. E’ quanto denunciava don Luigi Giussani ad Assago nel 1987 a un convegno della Democrazia Cristiana che, come ballando sul Titanic, continuava a ritenere, in piena assonanza con la teoria stalinista, che i partiti politici fossero gli attori protagonisti della vita del Paese e non loro servitori.

Ripartire dal basso perseguendo una nuova vita delle realtà sociali è possibile solo ritrovando quella “distanza critica” dalla politica, riscoprendo il valore di esperienze vissute a partire da un cuore non omologato al consumismo, alle mode, a ideali che non rispettano il singolo uomo. 

Questo, del resto, è il contributo che il nostro Paese può dare all’Europa e al mondo intero dove, al di là dell’incremento del Pil, la vita degli uomini vale meno di quella di un passero e dove si vorrebbe rottamarla quando non fosse più ritenuta utile.

 

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