Lo Stato del benessere, il nostro welfare state, è da tempo profondamente incrinato e le crepe che lo segnano rischiano di farlo tramontare definitivamente. Le ragioni di un tale declino sono note da tempo ed in gran parte vanno ricondotte tanto ai sempre più ridotti ritmi di crescita delle economie occidentali, quanto ad un’espansione esponenziale delle aree di intervento, fino all’uso distorto della spesa pubblica usata come valvola di decompressione delle crisi occupazionali, espandendo in misura incontrollata l’area del pubblico impiego. Ne è scaturita una spesa pubblica fuori controllo, ma anche una progressiva inefficienza dei servizi. Qualunque tentativo di imbrigliare un tale degrado si è arenato sulle difese estreme messe in opera da ogni lobby e da ogni corporazione, ogni qual volta rischiava di ridurre i margini di benefici conquistati in un passato più o meno recente. 



L’uscire da un simile vicolo cieco implica una chiara presa d’atto dei termini reali della situazione, l’assunzione condivisa di obiettivi espliciti, l’affermarsi di una fiducia reciproca tra tutte le parti in causa, un’estesa e convinta coesione sociale. Ma è esattamente il contrario che sembra prodursi, un po’ ovunque.



Dinanzi alla crescente insostenibilità dei livelli di spesa, all’inevitabile contrazione dei benefici ed alla crescita dei costi si ignorano costantemente le responsabilità delle politiche allegre e delle finanze allegrissime, sottoscritte da maggioranze parlamentari più che ampie e applaudite da tutti. Al posto di una lucida analisi degli errori fatti prevalgono puntualmente — e con quanta facilità — le tesi cospirative, la ricerca dei presunti colpevoli, l’elaborata descrizione del nemico immaginario, come se bastassero quattro congreghe di malfattori per spiegare la crisi della finanza pubblica. Come se l’ascrivere al malaffare o alle indebite ingerenze dell’uno o dell’altro potentato economico l’attuale stato di fatto, rendesse possibile ignorare le responsabilità di scelte irresponsabili fatte da intere maggioranze parlamentari. 



Se un simile scenario si manifesta un po’ ovunque è in Grecia che sembra avere assunto delle dimensioni parossistiche. L’accusa di “terrorismo” diretta verso le banche straniere da parte del dimissionario ministro Varoufakis è di un’irresponsabilità spettacolare. Così come lo è quella di una presunta umiliazione del popolo greco, costretto a fare ciò che ogni comunità politica è tenuta a compiere: onorare i debiti contratti, o almeno offrire garanzie concrete al momento di chiederne di nuovi. Si arriva a dimenticare come ogni condono del debito greco suoni come un segnale beffardo per tutte quelle nazioni che hanno avuto la capacità di intraprendere la strada opposta, affrontando sacrifici e restrizioni. 

Ma non ci si può fermare a questo. Al di là di queste ovvie affermazioni ciò che sta accadendo in Grecia non è minimamente riducibile ad un semplice malinteso, alla semplice resistenza di lobby e corporazioni. Al contrario dello scenario italiano — o di quello facilmente rintracciabile in altri paesi europei, come la Spagna — la situazione è ben più grave. 

In Grecia, in realtà, si sta consumando un vero e proprio dramma sociale. Il senso di impotenza di milioni di abitanti, chiamati illusoriamente a decidere su di una situazione che in realtà non ha vie d’uscita che non transitino per misure drastiche, costituisce una vera e propria truffa ideologica. 

Un popolo al quale è fatta vivere in modo così maldestro l’esperienza di una volontà tanto espressa pubblicamente quanto inutile sostanzialmente, non può che registrare, nel più profondo di se stesso, una profonda e reale frustrazione. Il popolo greco, grazie alla trovata dell’ineffabile Tsipras, vive così in tempo reale l’esperienza di detenere un potere semplicemente inesistente, che non risiede nelle sue scelte, esattamente come non risiede nelle scelte di nessun altro popolo. In un’economia globale infatti ciascuno è espropriato del proprio potere e le stesse sovranità nazionali non possano avere che un’autonomia limitata. Possono scegliere se uscire dal gruppo, correndo l’avventura di essere colonizzate da economie più potenti, o di restarci, rassegandosi ad una lenta e laboriosa trattativa, perché anche chi presta denari ha bisogno di avere dinanzi a sé un interlocutore affidabile.

Alla frustrazione di esprimere un voto che non ha nessun valore, si unisce il dolore di chi vede le proprie certezze economiche diradarsi, le piccole tranquillità di una pensione e di una casa farsi improvvisamente incerte. C’è il dolore di chi, alla fine della propria esistenza, deve guardare gli occhi di un figlio che non trova lavoro. Si tratta di una miscela esplosiva che può deflagrare in modo terribile: qualunque siano le scelte che si faranno, l’irresponsabilità dei governanti greci che hanno montato questo dramma è degna della più profonda sanzione.