Qualche giorno fa è morta a Mosca Kommunella Moiseevna Markman. Pochi la conoscevano in Russia. Forse finiranno per conoscerla di più in Italia grazie a un libro (Vive come l’erba, La Casa di Matriona – Itaca, 2015) in cui se ne racconta la storia, insieme a quella di altre sette donne, esempi di libertà e di umanità nel cuore di un sistema totalitario. E forse imparando a conoscere questa donna, impareremo a stare dove siamo e a non disperare. E non disperando noi, forse daremo una speranza anche ad altri.
Kommunella aveva 91 anni, otto dei quali passati in un campo di concentramento tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta; suo padre, vecchio bolscevico, era stato fucilato nelle grandi purghe del ’37, sua madre era stata incarcerata come «moglie di un traditore della patria» (ed era stata rinchiusa in un lager speciale diventato famoso proprio perché destinato per lo più a «delinquenti» di questa categoria particolare), sua sorella era morta durante l’assedio di Leningrado, dove Kommunella le aveva chiesto di restare: se «sei una patriota devi restare», le aveva detto, proprio lei che odiava il governo che le aveva ammazzato il padre e incarcerato la madre, ma sapeva ben distinguere Stalin dalla Russia.
La storia di Kommunella è quella che è: nella sua tragica eccezionalità è simile a quella di molti altri esseri umani cui è stato dato in sorte di conoscere il secolo-lupo. E si potrebbero in effetti raccontare altri momenti tragici della sua biografia, ma se ne parliamo oggi è per altro, è perché questa donna, con le sue tragedie, non appartiene a un passato che per qualcuno meriterebbe di essere sepolto e che qualcun altro si vergogna di ricordare, ma è una spina ficcata nella nostra umanità incerta e incattivita, quando siamo interdetti di fronte agli abissi del male, quando non sappiamo cosa fare se non accusare gli altri, quando anche nella nostra vita quotidiana non sappiamo più distinguere il vero da quello che ci immaginiamo, da quello che ci permette di non turbare le nostre abitudini, di non mettere a rischio le nostre comodità, la nostra tranquillità, il nostro prestigio.
Ecco, di fronte a tutto questo Kommunella resta per noi una pietra di scandalo e, nello stesso tempo, un’infinita occasione di speranza.
Con tutto quello che aveva passato, Kommunella innanzitutto non aveva dimenticato una cosa che le aveva insegnato la madre; quando c’era qualcosa che non andava e la figlia si lamentava, magari anche per dei torti reali (e si è visto di cosa poteva trattarsi), la madre le aveva insegnato a chiedersi: «non è che magari è anche colpa tua?».
E non è che le due donne fossero delle idealiste sospese fra le nuvole: Kommunella era stata condannata a venticinque anni di campo (poi ridotti a otto dopo la morte di Stalin) perché aveva partecipato a un gruppo che si era dato il nome di «Morte a Berija» (il capo della polizia politica responsabile insieme a Stalin della morte del padre); e quando la madre aveva saputo della condanna, le aveva detto: «non ti preoccupare creperanno prima quel somaro e quell’altro satrapo»; la stessa Kommunella, poi, quando era morto Stalin, aveva commentato la notizia dicendo «la cosa migliore che potesse fare». Eppure, fra tutto questo odio e tutto questo male, c’era un senso di umanità che ancora reggeva e che si manifestava in questa sorprendente coscienza di una comune responsabilità che non ti permette mai di chiuderti al confronto e poi magari anche all’accoglienza degli altri, nonostante tutto il male che possono averti fatto.
Certo, oggi forse questa disponibilità non è più così immediata; e l’Occidente, chiuso nel suo ateismo pratico e soddisfatto delle sue ricchezze (o magari anche disperato per averne troppo goduto), crede che queste siano storie o atteggiamenti d’altri tempi, più puri e ideali.
Ma non è che Kommunella fosse entrata nel lager come un’eroina o una santa che sapeva perfettamente cosa fare e come comportarsi. Ci era arrivata con un’educazione totalmente atea, le antiche radici ebraiche della famiglia erano state dimenticate da tempo e l’entusiasmo rivoluzionario dei genitori (evidente persino nel nome che le avevano dato), se le aveva conservato un naturale senso di solidarietà, non l’aveva certo tenuta lontana dal male e dal dolore (amori privi di valore consumati uno dietro l’altro, due aborti e chissà quanto altro), tanto che facendo poi il bilancio della propria vita e commentando il proprio arresto Kommunella avrebbe detto: «infine per fortuna mi hanno messo dentro; direi che mi è andata bene». Sembra una follia, ma si tratta di intendersi.
Le era andata bene nel senso che nel lager aveva trovato la fede, non come una serie di discorsi teologici o filosofici, ma la fede nella persona di Cristo, come l’unico che poteva farle compagnia in mezzo a quell’angoscia, come l’unico che non avrebbe mai detto di un’altra persona che «è una nullità»: così le era apparso, Cristo, al culmine di una lunga notte di panico e di solitudine. Ed è allora in questo modo che Kommunella comincia a guardare la gente che le sta intorno, persino i secondini (di cui diceva: «facevano pena, avevano gli stessi nostri problemi, ma non la stessa solidarietà di cui vivevamo noi»), persino il delinquente comune che cerca di violentarla e che si trattiene all’ultimo istante, fermato non si sa bene da cosa.
Noi oggi non sappiamo più vedere l’uomo non solo nel nostro nemico o anche solo nel nostro avversario, ma neppure in quello che la pensa in maniera diversa da noi; ma a questo punto cominciamo a intuire cosa voleva dire Kommunella quando diceva che per lei il lager era stato «una radicale scuola di umanità»: come nel caso del suo mancato stupratore, aveva imparato che «non bisogna mai credere di aver capito una persona, l’essere umano ti può sempre sorprendere; quanto è imprevedibile l’animo umano e quanto è bello».
E a questo punto non ci appare più una follia neppure il bilancio ultimo che Kommunella aveva tratto dalla sua esperienza nel lager: «Qui ho capito che l’NKVD aveva perso, perché non sarebbe mai riuscito con nessun mezzo a strappare agli uomini l’umanità».