C’è un fatto di cronaca che, nel brusio delle mille emergenze estive, non è riuscito a far sentire a sufficienza la propria voce. Alcuni giorni fa – erano le 4.30 del mattino – sulla tangenziale di Napoli un uomo di 29 anni (un millenial!), in evidente stato di ebbrezza, ha deciso repentinamente di invertire la rotta del suo viaggio e di intraprendere, senza scrupoli, la tangenziale stessa in senso di marcia contrario. L’ora era davvero molto particolare e per 5 Km quest’uomo, che a bordo aveva anche la propria compagna di 22 anni, non ha incrociato nessuno fin tanto che un altro automobilista, appena svegliatosi per recarsi a lavoro, non ha percorso lo stesso tratto di strada in direzione corretta arrivando inevitabilmente a scontrarsi col ventinovenne ubriaco. Immediata è partita la richiesta di soccorsi, ma proprio lì – in quel frangente fra la chiamata dei soccorsi e il loro arrivo – un uomo ignaro di tutto è passato accanto all’incidente ed è rimasto sgomento dallo spettacolo delle lamiere accartocciate. Ha constatato che per il povero automobilista sobrio non c’era più niente da fare e ha intercettato il braccio del conducente dell’altro mezzo che cercava di districarsi tra i rottami della tragedia. Accanto a lui i respiri ansimanti di una compagna che si sarebbe spenta in ospedale da lì a poco e il silenzio totale di una tangenziale fantasma in un’anonima alba di luglio. L’uomo ignaro non conosceva la dinamica dell’incidente e si è accostato al “pirata della strada” prendendogli la mano, consolandolo e facendogli forza fino all’arrivo dell’ambulanza.
Che strana questa vicenda! Pur essendo lucida e inequivocabile, è come se nascondesse dentro qualcosa di affascinante e di tremendo allo stesso tempo, ossia la pietà – la compassione – per il carnefice e la sua mostruosità. Nella società della colpa tutto questo è ovviamente impensabile e l’uomo ignaro è stato in poche ore ricoperto da insulti sul web, stigmatizzando una pietà non meritata e un dolore – che il primo soccorritore esprimeva – come un dolore inutile, sprecato. Non è certamente mia intenzione, dunque, fare la morale su questo episodio, ma porre qualche riflessione sì.
La prima che mi viene in cuore è questa: ci rendiamo conto di quanto sia più facile guardare alle cose per quello che sono quando siamo disarmati e senza pregiudizi? Quell’uomo, il soccorritore, non sapeva niente e – proprio per questo – ha potuto trattare il carnefice da “uomo”. I gesti di carità, nella vita della Chiesa, sono nati in forma anonima proprio per questo: una carità è vera nella misura in cui è gratuita, nella misura in cui l’altro proprio non la merita. Fare la carità a chi la merita non è cristianesimo, è un’ultima forma di filantropia.
Quanta ribellione sento poter crescere in chi legge queste affermazioni: mi rendo conto che tanti pensano all’assassino dei propri figli, a chi perseguita i cristiani nel mondo, agli irresponsabili che con i loro gesti hanno fatto male alla vita propria e di chi li circondava. Ma la carità, la misericordia, è anzitutto per loro. Il primo perdonato è il buon ladrone che – per inciso – non era crocifisso perché aveva rubato delle pere al mercato, ma quasi certamente per fatti di sangue. Eppure egli per noi è buono. La sua bontà non si è manifestata tanto nel non fare il male, ma nel lasciarsi guardare dal Bene, da Colui che è il Bene. Il Cristo sulla croce non ha formulato un codice etico esclusivo, ma ha guardato all’altro – perfino al ladrone – come ad un povero. Io sono fermamente convinto che questa nostra resa – parlo di molti cristiani in occidente – alla mentalità capitalista abbia regalato al marxismo in tutte le sue salse la parola “povero”. Mentre la povertà è qualcosa che è entrata nella storia come “sorella” solo con il Cristianesimo. Noi siamo un popolo di poveri, un popolo di salvati. E non possiamo non essere pieni, nei nostri occhi, di quella tenerezza che ci ha tratto fuori dal nulla. Chi si lascia prendere dalla foga della giustizia spesso non cerca di restituire a ciascuno le sue responsabilità, ma solo di rintracciare un colpevole, qualcuno da biasimare e da odiare. Nel volto dell’altro, diciamocelo, noi non vediamo anzitutto il volto del povero, ma l’incarnazione della parte più meschina di noi condannando la quale crediamo di poter facilmente condannare e chiudere i conti con noi stessi. Puniamo nostra moglie, ma forse puniamo noi, puniamo i nostri figli, ma forse puniamo il nostro Io, puniamo il mondo, ma forse puniamo il nostro male, quello che abbiamo terribilmente paura di fare e di essere. Per questo il perdono fa bene: perché riporta l’altro a quello che è, ossia il riflesso di un bene promesso, una parte di me nuovamente amabile. Noi, pertanto, non abbiamo bisogno di vendetta o di vittoria, noi abbiamo bisogno di lacrime, abbiamo bisogno di misericordia. Per questo vorrei finire spingendomi ancora un po’ oltre e chiedermi chi può restituire uno sguardo del genere alla nostra vita. Forse ci costa ammetterlo, ma solo il divino può salvare l’umano, solo la Presenza del divino cambia, trasforma, perdona. Non sono le nostre idee sulla Chiesa, sul Papa, sulla società, sulla politica, sull’amore o sul lavoro a salvare quello che sta avvenendo. Non è l’esibizione scomposta di una lezione morale che salva il nostro matrimonio, che salva i nostri figli, che salva noi stessi dal mostro che siamo. E’ un Altro. E’ il primo soccorritore che passa quando ancora non è arrivata nessuna ambulanza e – senza indagare troppo – ci prende la mano e ci perdona. Senza la chiarezza di questo bisogno continueremo a giustificare le decisioni già prese con discorsi fondati su parole in definitiva mai vissute. In fin dei conti noi pensiamo di non aver bisogno di nessuno per guardare nostra figlia, per ascoltare nostro marito o per sopportare il nostro collega molesto. Noi sappiamo già come lui dovrebbe essere e abbiamo fior di teorie pronte a spiegare la bontà del nostro giudizio, la sua stessa ortodossia ed evidenza. Rimane il fatto, però, che lui, che lei, c’è, ci sono. E quel braccio che penzola fuori dalle lamiere all’alba di una mattina di luglio rischia di trovarci pieni di giusti giudizi, ma poveri di vera compassione. Lasciandoci soli nel nostro splendido fortino. Capaci di tutto, ma incapaci di piangere per il povero che vive dentro di noi.