40 gradi all’ombra. Nella parte alta della città di Megiddo, una birra fresca può essere decisiva per un visitatore, dato che il sole picchia senza pietà sulle pietre della città. Il pozzo del tempo a Megiddo è profondo come in nessun altro posto. Il terreno della parte superiore, quello più giovane, è dell’epoca della prima distruzione del tempio di Gerusalemme (487 a.C.). Sotto ci sono 25 strati delle differenti città costruite dall’epoca del Calcolitico. Megiddo, la città in cui secondo l’Apocalisse ci sarà la battaglia finale tra il bene e il male, ha sicuramente 7.000 anni, se non di più.
All’incrocio di strade che occorre fare per arrivare a Megiddo, un ebreo ortodosso fa l’autostop. Sembra non aver caldo e porta tranquillamente la sua kippah, il suo cappello e i suoi pantaloni neri. L’abbigliamento centroeuropeo sembra una tortura in questa estate mediterranea. È sabato, la Galilea è tranquilla. La morte della seconda vittima araba dell’attacco ebraico dello scorso 31 luglio non ha causato particolare agitazione. Ma le pietre di Megiddo non sono indifferenti a questa forma di violenza che si vuole giustificare nel nome della religione. Alcune di queste pietre, tra le ultime, le ha poste Giosia, forse il miglior re d’Israele dopo Davide, che sapeva distinguere la differenza che c’è tra religione e ideologia.
A Megiddo i palazzi e i templi si susseguono uno dietro l’altro. La luce intensa di agosto evidenzia i muri, le scalinate e gli altari che sono stati costruiti da quando la città è diventata una zona strategica, un passaggio tra Egitto e Mesopotamia, le due grandi potenze della Mezzaluna fertile. Megiddo ha conosciuto il nome di molti dei, di molti re e di molte forme di schiavitù. Le porte dell’epoca cananea sono intatte. Su un altare circolare, e sotto di esso, sono stati fatti sacrifici animali, e forse umani, per millenni. Il modo di invocare il Mistero è cambiato, ma il desiderio di espiazione, di rompere il circolo del male si è espresso con tenacia, quasi con ossessione, fino al primo millennio avanti Cristo. I riti cambiavano forma, i sacerdoti vesti, le parole del culto mutavano lingua, ma l’impulso era lo stesso. I racconti delle teogonie si succedevano, fino al primo millennio avanti Cristo, quando apparve un racconto diverso.
Quando Salomone costruisce a Megiddo il suo tempio, la storia che comincia a essere raccontata è quella di Abramo e la legge che inizia ad applicarsi è quella di Mosè. Ma si trattava realmente di un racconto differente? In quella storia, che più tardi venne messe per iscritto, ci sono molti dei personaggi apparsi nelle storie sentite in Mesopotamia. C’erano anche un diluvio e un giusto che soffriva. Sulla colonna di Megiddo anche a chi non è esperto di teogonia non risulta difficile distinguere l’origine di una religione da quella di un’altra. Ma guardando all’orizzonte, vedendo una piantagione di mais crescere sotto i propri piedi, pensando a questo calore e a quello che accadrà nell’autunno dolce, nell’inverno freddo e nell’esuberante primavera, nel cuore e nella testa compare una frase semplice: tutto è in ordine, tutto è buono.
Quel che conta per distinguere una forma di concepire Dio dall’altra è il modo con cui porta a relazionarsi con la realtà. E la frase “tutto è buono” non si era mai pronunciata finché a Megiddo non è arrivato Salomone. Le nuove Megiddo ora sono a Londra, New York, Pechino e difficilmente i loro abitanti, guardando al futuro, possono dire che tutto è buono. Il racconto non riesce più a mantenersi vivo.
Ecco allora la seconda domanda: perché il racconto è differente? I sociologi, i politologi, gli storici avranno certamente da fare. Marx e Feuerbach ci hanno insegnato a dargli credito e a sospettare di una sola delle spiegazioni: quella che lo stesso popolo di Salomone dava. Non sembra però che possiamo andare avanti così. Non sembra ragionevole respingere a priori la spiegazione del cambiamento che c’è stato a Megiddo data dallo stesso popolo d’Israele: il racconto, lo sguardo verso l’orizzonte è cambiato perché il Mistero aveva deciso di intervenire.
Questa differenza si è fatta tenera, gratuita, radicale e strepitosa a pochi chilometri da Megiddo mille anni dopo, lontano da palazzi e templi, in una grotta di Nazareth. La differenza si è fatta uomo perché il racconto non si perdesse, per accadere istante dopo istante.