Dopo il caso di Riccione un altro ragazzo muore — questa volta nel Salento — per una droga che il corpo non riesce a metabolizzare. Una ragazza di diciassette anni viene trovata senza vita sulla spiaggia di Messina, mentre quattro ragazzine quattordicenni, colte in coma etilico alle prime luci dell’alba, vengono salvate dal pronto intervento delle autorità sanitarie di Brindisi. Emerge qui il problema di una generazione che, ancora di più di quelle che l’hanno preceduta, è tentata da forme estreme di evasione come strumento di piacere e di autosoddisfazione in alcuni casi o come fuga dalla propria esistenza in altri. La tentazione è rappresentata da prodotti chimici letali a portata di mano, capaci di filtrare con facilità tra le maglie delle reti di controllo (quando ci sono) e che costano poco meno del biglietto di ingresso in uno dei tanti locali del divertimento notturno.

L’universo politico, dopo aver ignorato l’argomento per anni, scopre l’urgenza del tema. L’opinione pubblica è divisa tra una parte cospicua che chiede a gran voce la chiusura delle centrali del divertimento a effetti speciali, viste come il luogo nel quale ragazzi e ragazze sono tentati dal gioco mortale delle droghe, ed un’altra, meno estesa ma di grande presenza sui media, che fa invece riemergere le ipotesi anti-proibizioniste volte a legalizzare una parte delle droghe, portandole così alla luce del sole e controllandone l’abuso.  

Simili reazioni, per quanto assolutamente comprensibili, hanno forti possibilità di rivelarsi profondamente inefficaci. Nel primo caso la chiusura delle centrali del divertimento (tutte?) sarà rapidamente sostituita da altri e ben più mortali riunioni del delirio (si pensi ai rave party); nel secondo caso la stessa presunzione di poter gestire droghe e derive estreme di ogni tipo, attraverso circuiti legali e consigli medici, non fa i conti con la dimensione di fondo del problema-droga, che è quella della “dipendenza”. 

Il dipendere da sostanze stupefacenti non è affatto assimilabile alle devianze ordinarie, ma costituisce una condotta che imprigiona progressivamente la persona in una vera e propria camicia di forza, privandola di tutte le armi di difesa e assoggettandola ad assunzioni crescenti fino a quando, dopo aver bruciato tutti i ponti e tutte le relazioni possibili con gli altri, ne stronca l’esistenza.

Il tossicodipendente non è libero, né può esserlo. La stessa scelta di fornirgli le sostanze tossiche in farmacia anziché nel sottopasso della stazione, se rende certamente più asettiche le circostanze ed evita le droghe tagliate con materiali ancora più letali, non cambia in nulla l’imprigionamento che arriverà a stroncarlo. Si tratta di una morte lenta e l’accondiscendervi fornendo pasticche e consigli sull’uso anziché imporgli una via d’uscita, mostra il fallimento plateale della strategia antiproibizionista.

In realtà ogni adolescente che si fa imprigionare dalle droghe, ogni ragazzina che precipita in coma etilico dopo l’assunzione di alcol, stanno materialmente costruendo la prigione che li sottrarrà sempre di più al mondo ed a quanti li amano. Stanno andando via, se ne stanno andando, e tutto quello che riusciamo a fare è chiuderli in casa da un lato, oppure distribuire opuscoli con gli orari di partenza e cestini da viaggio dall’altro. La possibilità di distruggersi non può essere realisticamente combattuta offendo, all’adolescente che si sta chiudendo nella propria gabbia mortale, il kit della sua lenta auto-soppressione. Una simile società conosce già il proprio declino.

L’unica risposta alla droga è in realtà quella di tornare ad edificare e declinare argomentandola, quella che, oramai, è diventata una vera e propria “controcultura della vita”: quella costituita dalla bellezza di un’esistenza condivisa con gli altri, dove ci sono “le opere ed i giorni”, le professioni e i mestieri che si apprendono, i figli che nascono e le case che si abitano. Quest’esistenza fondata sulla relazione, nella quale nessuno è un’isola ma ciascuno è richiamato alla responsabilità della vita che gli è stata donata e dell’affetto che ha ricevuto, deve tornare ad essere l’orizzonte condiviso di ciascuno e nel ricostruirla ognuno ha la sua parte di responsabilità.

La lotta contro la droga, oltre ai supporti medici e psicoterapeutici, si realizza soprattutto richiamando la persona alla vita in contesti umani concreti, dove il riconoscimento di ciò che si è e di ciò che si è ereditato sono effettivamente percepiti, dove la centralità delle relazioni è un’esperienza effettiva. 

Al rapporto umano troncato dalla droga e mai realmente cresciuto in chi ne fa uso, va replicato con la relazione ricostruita e riconosciuta. Alla deriva di una vita frantumata va risposto con l’aiuto all’edificazione di una vita ricomposta. Nessun’altra battaglia per il recupero della persona, per la sua restituzione ad un mondo di affetti e di responsabilità vitali appare, oggi, più importante di questa.