Da mesi le nazioni che costituiscono l’Antica Rus’ (Russia, Ucraina e Bielorussia) stavano preparandosi a celebrare l’importante anniversario caduto lo scorso 28 luglio: i mille anni dalla morte del principe Vladimir di Kiev, una sorta di «Costantino russo», il primo sovrano che si fece battezzare insieme ai propri sudditi segnando così l’ingresso del suo paese nella Chiesa cristiana ancora indivisa, oltre che nella scena storica e nella civiltà europea del tempo.
Nel contesto odierno, tra le passioni e le emozioni che agitano i cuori e inquinano i rapporti fra queste popolazioni, questo anniversario potrebbe costituire un’occasione straordinaria di unità, che dalla fede arriva a coinvolgere tutte le sfere della vita, dalla politica ai costumi sociali e alla cultura. In realtà sembra essere avvenuto il contrario, le celebrazioni della festa di san Vladimir sono state pesantemente condizionate dagli eventi, svolgendosi nelle tre capitali separatamente, senza la possibilità per il patriarca Kirill di celebrare a Kiev, come di consueto, con liturgie e processioni pubbliche a volte ostentatamente antitetiche: una triste riprova di quanto cammino ci sia ancora da fare perché si realizzino il comandamento di Cristo «che siano una cosa sola» e la vocazione unitaria additata da san Vladimir.
Oggi i termini stessi «unità», «verità» sembrano includere un’idea di costrizione, di imposizione. Come se sempre più persone si convincessero che varcare il sottile confine tra bene e male non è responsabilità quotidiana dell’«io»: si cede all’illusione – alla tentazione – di tracciare una linea di demarcazione fra partiti, schieramenti, istituzioni anche ecclesiastiche. E l’altro non è una risorsa, proprio perché chiede la fatica di mettersi in questione: si preferisce cercare scorciatoie individuando dei colpevoli, dei nemici. Proprio in questa logica, alla vigilia della festa di san Vladimir, parlando delle tensioni accumulatesi in Ucraina, il patriarca Kirill ha avuto parole durissime contro i greco-cattolici, accusandoli senza mezzi termini di «lavorare da 400 anni per dividere il nostro popolo in Ucraina. E questo è più tremendo di qualunque invasione, perché si tratta di un’aggressione dall’interno». A tali persone «smarrite, accecate dal nazionalismo e fautrici dello scisma», «oggi come ai tempi del principe Vladimir si contrappone la Chiesa Una Santa Universale e Apostolica, che testimonia e serve in nome del Signore il proprio popolo, contribuendo a sanare tutte le sue ferite e infermità».
Un altro fronte è la «guerra dei valori», ovvero l’ostentata difesa della tradizione in una logica che spesso ha ben poco di cristiano, ricalcando errori che sono costati cari in passato alla cristianità, in Russia e non solo in Russia. È di pochi giorni fa una lettera aperta scritta al patriarca dagli attivisti del gruppo pro-life russo «Tuteliamo la vita insieme», con la richiesta di scomunicare i sostenitori dell’aborto, poiché «il Vangelo dice in maniera inequivocabile che queste persone, se non si pentono, non erediteranno il Regno dei cieli».
Osservando che la mentalità abortista è presente anche tra molti che «si dicono ortodossi, vanno in chiesa e si accostano ai sacramenti», i firmatari fanno appello al patriarca affinché «attesti che tutti i battezzati nella Chiesa ortodossa che promuovono l’ideologia abortista non hanno parte né al cristianesimo né alla Vita eterna, scomunicandoli dalla Chiesa».
Senza troppo addentrarci in questioni storiche, nella storia della conversione del principe Vladimir i termini «verità» e «unità» hanno ben altro accento: nel famoso episodio del «vaglio delle fedi», fu un amore alla bellezza a far preferire al principe la fede di Bisanzio – e questa bellezza era la Presenza di Dio, perché in Santa Sofia i suoi messi videro un tale splendore «che certo là Dio dimora con gli uomini». Poco dopo venne la scelta dei suoi figli Boris e Gleb, primi santi canonizzati dalla Chiesa russa, di morire per mano di sicari dei fratelli nel corso delle lotte per la successione che seguirono alla morte di Vladimir, piuttosto che combattere spargendo a loro volta sangue fraterno. La Chiesa russa li chiama «coloro che patirono la passione», perché si assimilarono a Cristo sofferente rimettendo a Lui la giustizia per sé e per il proprio popolo. Uomini commossi, vibranti davanti a una Presenza e consapevoli che l’opera dell’evangelizzazione è una testimonianza del Mistero pasquale, consiste nel condurre, accompagnare il mondo di fronte a Cristo unico Giudice e Salvatore.