Quando papa Pio XII nel 1950 proclamò il dogma dell’Assunzione di Maria al cielo, usò parole che, a parte qualche ridondanza lessicale, potrebbero essere state scritte ieri: “Vi è da sperare che tutti i cristiani siano stimolati da una maggiore devozione verso la Madre celeste, e che il cuore di tutti coloro che si gloriano del nome cristiano sia mosso a desiderare l’unione col corpo mistico di Gesù Cristo e l’aumento del proprio amore verso colei che ha viscere materne verso tutti i membri di quel Corpo augusto. Vi è da sperare inoltre che tutti coloro che mediteranno i gloriosi esempi di Maria abbiano a persuadersi sempre meglio del valore della vita umana, se è dedita totalmente all’esercizio della volontà del Padre celeste e al bene degli altri; che, mentre il materialismo e la corruzione dei costumi da esso derivata minacciano di sommergere ogni virtù e di fare scempio di vite umane, suscitando guerre, sia posto dinanzi agli occhi di tutti in modo luminosissimo a quale eccelso fine le anime e i corpi siano destinati; che infine la fede nella corporea assunzione di Maria al cielo renda più ferma e più operosa la fede nella nostra risurrezione”.
Così il Vescovo di Roma, ma così anche il saggio parroco del paese delle mie vacanze liguri che ogni anno all’Assunta non si stancava di ripetere sempre la stessa cosa, che cioè quella solennità, salutata dalle grigliate, dai fuochi d’artificio, dalle sagre, era la festa della glorificazione del corpo. Nella pastorale di allora la sottolineatura era insolita: la fede veniva quasi sempre spiegata come qualcosa di etereo, di trascendente, che toccava la vita quasi solo per dirigere i costumi. Eppure quel parroco coglieva per il suoi fedeli e per la gente in vacanza il punto fondamentale del cristianesimo: Dio si è fatto uomo, il Verbo si è fatto carne. Perciò in Lui l’uomo intero partecipa alla salvezza, come desiderio di essere unito al Corpo mistico del Salvatore, come dedizione alla volontà di Dio e al bene degli altri, come consapevolezza della vita risorta alla quale è destinato.
E con l’uomo anche la natura non è solo spettatrice delle vicende umane, depredata dall’avidità dei profitti, ma è resa parte della gloria di Dio creatore e dell’uomo, che nel lavoro imita il Padre. La caparra di tutto questo non è solo Cristo risorto e asceso al cielo, ma anche sua Madre, l’unica creatura che abbia raggiunto compiutamente il fine. Ma non deve sfuggire un particolare, che da solo sbaraglierebbe le accuse più torve mosse alla Chiesa: questa creatura è una donna.
Quale gloria più grande di questa? Quale suggerimento più convincente all’onore dovuto alla figura femminile, madre, sorella e sposa? Quale inno alla vita, di cui la donna è portatrice, più intimo e solenne? Veramente ci si lascia accecare dal pregiudizio se non si riconosce questa che non è poesia, ma fatto reale, che diventa poesia nell’indicare il più grande mistero di Dio.
Nel suo primo discorso sull’Assunzione di Maria al cielo san Bonaventura cita un passo del Cantico dei Cantici: “Chi è costei che sale dal deserto, ricolma di delizie, appoggiata al suo diletto?” (Ct 8,5), e lo applica a Maria, vivente in corpo e anima nella città celeste. Ma anche la religiosità popolare ripete: “Andrò a vederla un dì, in cielo patria mia, andrò a veder Maria, mia gioia e mio amor”.