L’apice forse lo si è raggiunto con Alex e Martina, la giovane “coppia dell’acido” cui è stato tolto il figlio appena nato con la richiesta, da parte dei pm, di renderlo adottabile. C’è sempre di più una generazione alla deriva, vittima dei propri desideri e delle proprie bestialità, che riempie le pagine dei giornali di questa estate e che — già ad inizio stagione — avevamo definito come “giovani con la morte nel cuore“. Dinnanzi all’imponenza della cronaca, però, le analisi da sole non bastano, serve invece capire da dove poter ripartire perché é chiaro che qualcosa, nell’azione educativa degli ultimi trent’anni, non ha funzionato. Ancora una volta il nostro sguardo si rivolge a Dio — il Grande Educatore — che, avvilito per la via intrapresa dal popolo di Israele, nel libro di Osea si ripromette di condurlo nel deserto per parlare al suo cuore. 

Ecco allora due immagini molto care all’Antico Testamento: il deserto e il cuore, la dura realtà e l’Io. Non ci sono altre strade per ricominciare: c’è dentro di noi qualcosa che noi non abbiamo fatto e questo qualcosa — il cuore appunto — è l’interlocutore bramato da Dio per riaprire il dialogo con la nostra vita, col nostro bisogno più vero. Esso però non è facilmente accessibile, ma emerge nel deserto, laddove non ci sono appigli o surrogati e tutto è pura realtà. Solo la realtà ridesta, solo la realtà smuove. 

Pare evidente che il punto cruciale nell’educazione sia dunque questo: il rapporto con il reale. Così come pare evidente che la realtà interessi il cuore di un giovane solo finché è facile, solo finché appare vivibile e a buon prezzo. È qui, dunque, che si inserisce un altro fattore fondamentale: l’amicizia. Ognuno di noi ha bisogno di amici che non gli permettano di sfuggire dalla scorza dura della realtà, che sostengano l’urto del cuore con le cose “così come sono”. Basta amicizie che si rivelano rifugio sentimentale di paure e di incertezze, basta adulti che inventano utopie e gesti di gruppo per creare esperienza, basta compagni che ragionano e discorrono secondo logiche stringenti, ma che poi si ritrovano inconsistenti nell’amore e nella responsabilità. 

Noi abbiamo bisogno di recuperare una scommessa pura sull’Io, di adulti che non maledicano i tempi in cui vivono, ma che assecondino le intuizioni del cuore di chi incontrano sostenendole fino alla domanda decisiva, fino ad arrendersi e a non scappare più. La rivoluzione educativa, la svolta per una crisi che sembra senza fondo, accade pertanto nell’adulto, nel soggetto che — per vocazione — è chiamato ad educare. Un soggetto che accetta di fare autocritica su come si è posto nei confronti dei più giovani fino ad oggi, un soggetto disponibile a lasciare il potere, a fare un passo indietro e a riconoscere che, nella Chiesa come nella società, non esistono uomini per tutte le stagioni.

Un soggetto, insomma, che dalla “presunzione di educare” torni ad essere figlio curioso dell’esperienza, un adulto che occupi il posto che Dio gli ha dato e che accompagni i più giovani senza invadere, senza manipolare, senza ripetere gli eterni e rassicuranti schemi mentali del passato magari riadattati al presente.

Con un adulto così si può dialogare, con un soggetto così ci si può incontrare, si può costruire e stringere un patto. Perché è finito il tempo in cui la comunione era ridotta ad un dato che rinchiudeva il dialogo in un perimetro preconfezionato: oggi non c’è più tempo per fare gli snob, ma occorre avere il coraggio di aprire un canale di incontro — di comunione appunto — con tutti coloro che intuiscono che è dal rapporto autentico del cuore con la realtà che rinasce l’Io, che risorge la vera domanda dell’uomo, che riparte il grande compito educativo della nostra civiltà. 

Poco importa se questo toglierà potere a qualcuno o indebolirà la ferrea logica di qualcun altro. Qui c’è in ballo un bimbo — centinaia di bimbi —, ci sono in ballo Alex e Martina, c’è in ballo un’intera generazione. E non sarà qualche concetto corretto e pulito a fermare la marea della realtà. Perché la sfida, sia chiaro, è appena cominciata.