Spianata delle moschee, di fronte alla Roccia, dove forse c’era l’entrata del Secondo tempio, ampliato da Erode il Grande a tempi di Gesù. Un gruppo di studenti partecipa a quella che sembra una gita e, nel vedere uno dei poliziotti israeliani che pattugliano la zona, grida all’unisono: Allah è grande! Il nome di Dio viene utilizzato come provocazione, come forma di violenza.
Solo poche settimane fa c’è stato l’ennesimo scontro in questa zona della città. I musulmani vi accedono dal quartiere arabo, gli ebrei vengono dissuasi dal visitare questa parte di Gerusalemme e i pochi cristiani che lo fanno sono obbligati a entrare attraverso un ponte di pietra costruito dal Muro del pianto e dopo una procedura estenuante.
Israele è diventato il Paese dei check point per chi non vuole restare nella “zona di sicurezza”. Le mappe non servono, la maggior parte dei vecchi varchi è stata chiusa e per trovarne uno aperto occorre fare una deviazione di parecchi chilometri. Ci sono controlli per andare a Betlemme, per visitare Nablus e il pozzo di Giacobbe – dove Gesù ha incontrato la Samaritana -, per arrivare in Samaria o per visitare Gerico. E poi c’è sempre il muro, di filo spinato, di cemento, quel muro, così simile a quello di Berlino, che attraversa anche la città in cui è nato Gesù.
Per accedere a Hebron, dove si trova la Grotta dei patriarchi, ci vuole molta pazienza e decisione. ci si può arrivare solo dopo aver attraversato un check point e un insediamento di coloni. I soldati che controllano sanno a malapena l’inglese. Si percepisce tensione intorno alla tomba di Abramo e Sara: i cristiani non sono ben accetti nella zona ebraica per il loro atteggiamento nei confronti dei palestinesi. È l’accusa che viene sempre mossa ai pochi cristiani rimasti in Terra Santa: essere dalla parte dei palestinesi.
Dopo diversi controlli si arriva alla tomba di Giacobbe su cui pregano gli ebrei devoti. Una soldatessa controlla la preghiera con un fucile in una mano e un sacchetto di patatine nell’altra. La preghiera protetta dalle armi: quello che fa la soldatessa si spiega con un ritornello che si ripete continuamente “Israele deve proteggere i luoghi sacri. Israele deve proteggere i suoi cittadini”.
In nome della protezione dei cittadini di Israele, che hanno deciso di creare colonie in Cisgiordania, l’esercito pattuglia numerose zone del territorio palestinese con veicoli blindati e jeep che sfoggiano grandi bandiere israeliane. Si tratta di territorio che secondo la maggior parte delle nazioni del mondo è di sovranità palestinese, competenza dello Stato riconosciuto quest’anno anche dalla Santa Sede.
Le colonie, i continui pattugliamenti sono una ferita in questa parte della Palestina. I coloni sono stati protagonisti a luglio di un atto terroristico. La società e il Governo hanno reagito con una ferma condanna: questo è l’inizio di un cammino che bisogna tornare a percorrere. Il processo di pace iniziato da Obama si è trasformato in un nulla di fatto. Sono cinque anni che le due parti non si siedono a parlare con serietà. Era già chiaro nel 2010: Netanyahu doveva affrontare il tema delle colonie, ma non l’ha fatto: pace in cambio dei territori secondo quella che era una vecchia formula.
I fondatori dello Stato d’Israele avevano chiaro quel che ora sembra essere stato dimenticato: non si può essere contro tutti su tutti i fronti (a Gaza contro Hamas e forse tra poco contro Al Qaeda; negli Usa contro coloro che vogliono un accordo con l’Iran; a nord contro Hezbollah, sul territorio palestinese contro la popolazione e l’Autorità nazionale che non accettano l’invasione di sovranità).
La pace non è possibile se non si chiudono le ferite, né in Israele, né in Medio Oriente. E le minoranze, specialmente quella cristiana, continueranno a essere vittime di persecuzioni. Se non si chiude la ferita non si potrà allontanare il nome di Dio dalla violenza.