La mancanza, handicap o speranza?

Che gli esseri umani siano esseri "mancanti" sembra essere la cosa più scontata. Eppure è anche la cosa più censurata, magari nell'illusione di potercene liberare. COSTANTINO ESPOSITO

Che gli esseri umani siano esseri “mancanti” sembra essere la cosa più scontata. Eppure essa è anche la cosa più difficilmente compresa, spesso addirittura censurata, magari nell’illusione di potercene liberare. Gran parte della cultura in cui siamo immersi può essere vista come una grande strategia per analizzare, rielaborare e cercare di colmare le mancanze che segnano la nostra esistenza e la nostra convivenza, ma al fondo di questa impresa emerge sempre una duplice possibilità di lettura: o la mancanza è il segno potente, anche se scomodo e inquietante, del fatto che ciascuno di noi è in rapporto con qualcosa o qualcuno – altro da sé – che gli manca; oppure la mancanza è un deficit o una disfunzione del nostro stare al mondo, dovuto a motivazioni psicologiche o a fattori oggettivi (per esempio di tipo socio-economico) che dobbiamo in qualche modo dominare, per diventare sempre più artefici della nostra vita. Vista con il primo sguardo, la mancanza è il segno o la traccia di una relazione; vista con il secondo, essa è un vero e proprio handicap.



Per scoprire il senso più radicale – e quello più interessante – della mancanza vale forse la pena partire dalla dinamica dei bisogni con cui abbiamo a che fare ogni giorno, e al fondo dei quali spesso si presenta, tacito o esplicito che sia, il bisogno stesso di vivere. Per noi “animali pensanti” la vita non è mai “pura” o “nuda” vita, come forse potremmo chiamare la vita delle piante o degli animali (o anche, se si vuole, dei meccanismi cibernetici addestrati a funzioni tecniche più elaborate), ma è una vita sensata. Il bisogno di vivere è il bisogno, inevitabile, di un possibile senso di noi e delle cose. Chi negherebbe, almeno in teoria, questo bisogno? E chi negherebbe che quasi sempre la radice ultima del disagio e della difficoltà della vita – a livello personale, ma ancor più culturale e sociale – sta nella mancanza di questo senso? 



Il pensiero filosofico ha spesso sottolineato, da angoli visuali anche assai diversi tra loro, il fatto che noi non solo manchiamo di qualcosa – in quanto dipendenti dalla storia, dalle circostanze di spazio e di tempo, dai casi incontrollabili della vita – ma che più radicalmente noi siamo esseri-di-mancanza. Gli uomini non sono mai semplicemente “quello che sono”, ma sono un processo di realizzazione, un movimento verso il proprio compimento che non è mai completamente realizzato.

Platone nel Simposio aveva individuato questa dinamica nel fenomeno dell’eros, che ha sempre bisogno di quel che ama, vale a dire di ciò che è bello, perché nello stato presente non lo possiede. L’amore è proprio questa mancanza del bello e del buono, ed è insieme tensione del desiderio verso di esso. 



E anche Aristotele, nella Metafisica, parlava di una “privazione” che non è mai solo una mancanza intesa come mera negazione, ma è una “predisposizione” o “tensione” ad una forma di attuazione ancora mancante. Sarà il cristiano Agostino a irrompere sulla scena dando alla mancanza il significato potente di un’assenza che, proprio nel suo mancare, dà prova della sua misteriosa presenza, riconoscibile proprio nell’inquietudine della coscienza. La mancanza è “l’abisso della coscienza umana”, e in tal modo essa è più presente a noi di noi stessi. Ma ci sarà anche chi come Schopenhauer affermerà che la mancanza è essenzialmente sofferenza e tormento, segno che il nostro desiderio e la nostra stessa volontà sono una forza cieca, senza ragione, che non troverà mai vera soddisfazione. Insomma essa è segno, più che di una presenza che attira il desiderio dell’io, di un’assenza che lo divora e lo annulla.  

Si gioca qui probabilmente la posta in gioco del nichilismo contemporaneo: riconoscere il significato e la portata del nostro bisogno ultimo di vita e scoprire che la mancanza che sempre inevitabilmente ci segna può essere non solo un vuoto da riempire con le nostre performances e  coprire con le nostre immagini, ma la traccia nativa dell’origine che noi “siamo” e che tende al compimento. La mancanza ci urge a riconoscere la nostra finitezza, ma questa non significa solo che siamo mortali, ma innanzi tutto che siamo nati: che siamo rapporto con la nostra provenienza e desiderio del nostro destino. 

 Questa struttura ontologica e antropologica della mancanza è ciò che permette di stare nella trama del mondo e nelle sfide della società ricercando sempre quel dialogo con l’altro o il diverso che è la condizione permanente del “sé”. Anzi si può dire che la mancanza è come una dimensione costitutiva di ogni identità personale e sociale, che non può mai esaurirsi in un’affermazione di sé, senza essere anche bisogno e ricerca di ciò che ci fa vivere sensatamente, e che non è mai solo un nostro possesso o una nostra proprietà. Condividere questa mancanza può essere il luogo dell’incontro e della costruzione comune tra le persone. Soprattutto evitando il rischio che la politica o l’economia o una qualsivoglia strategia sociale possa presumere di annullare quella mancanza, che è poi la tentazione di ogni ideologia. 

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