È davvero bello il titolo del prossimo Meeting, “Tu sei un bene per me”. Ed è bello sia che lo si intenda con il “Tu” maiuscolo sia con il “tu” minuscolo. Se l'”io”, come diceva il grande Carlo Emilio Gadda, è il “più lurido di tutti i pronomi”, il “tu” è al contrario il più grande e il più liberante. Dire “tu” nel mondo d’oggi è già di per sé un semplicissimo atto sovversivo. Perché lo è? Perché siamo figli di una civiltà che gioca a isolare le persone nel guscio del loro “io”, per poi meglio gestire i processi omologanti delle mode e del pensiero unico. Illude l'”io”, lusingandolo in ogni senso, per tenerlo più agevolmente sotto controllo. Lascia credere che i legami siano una limitazione, che ogni relazione in qualche modo vincolante sia una castrazione dell’io, una penalizzazione delle proprie potenzialità. Se ne vede l’esito nella fatica spropositata che le persone hanno anche semplicemente nel costruire una vita comune nel matrimonio: la statistica parla in termini spietati, se si pensa che a Milano oggi vivono più nuclei di single che di coppie o famiglie. La centralità cooptata dell’io ha prodotto forme dilaganti di narcisismo da una parte, e dall’altra fenomeni drammatici di solitudine. La società individualista alla fine si scopre più povera, più fragile e ovviamente più egoista. Anche in campo cattolico l'”io” ha strabordato e la tentazione pelagiana più volte denunciata dal Papa ne è un po’ l’esito. 



Per questo mettere in campo il tema proposto dal Meeting 2016 è come dare a tutti un’occasione per respirare, per uscire dal guscio claustrofobico di questo “io” soverchiatore. Il titolo è bello anche perché ha un tono gentile, anzi, cordiale. Non è un titolo che propone un imperativo, per quanto giusto. È un titolo che suona semplicemente come riconoscimento di un fatto che appartiene all’ordine delle cose.



Lo scorso anno, analizzando le ricorrenze delle parole nei discorsi dei primi 12 mesi di Papa Francesco per il mensile Vita, ci siamo trovati di fronte a un risultato che tracciava con nettezza il suo modo di porsi. Le ricorrenze del primo pronome personale erano praticamente inesistenti, mentre la scena era tutta occupata dal “tu” è dal “noi”. La relazione non è casuale. Il “tu” infatti è il pronome che suggerisce un “uscire”, un venir fuori dal proprio recinto per mettersi in rapporto con l’altro. È un pronome dinamico, che implica un muoversi, o meglio ancora uno sporgersi. Se l'”io” congela le relazioni sociali, il “tu” le rimette in circolo. Per questo il “tu” spalanca la dimensione del “noi”, che è la dimensione costitutiva di una società sana, dove la relazione si traduce anche in dinamismo di amicizia e di solidarietà. Il “noi” è il pronome proprio della compagnia degli uomini. 



C’è un altro spunto che quel titolo suggerisce. Ed è legato alla parola “bene”. “Bene” ha una consistenza non solo d’ordine morale, ma anche di concretezza. Il “bene” è anche uno star bene, un vivere bene, un’immissione di convinzioni positive in mondo egemonizzato dallo scetticismo. Soprattutto è un bene che non conosce condizioni, è un bene a prescindere. Il “tu”, in quanto pronome aperto, porta a vedere nell’altro sempre un segno più, una ricchezza, seppur dovesse essere carica di problematicità. È ad esempio il “tu” dei migranti, che arrivano con il loro carico di dramma e di speranze. È il tu di chi è portatore di bisogni. È il tu di chi porta sul proprio corpo un carico di ferite. Sono tutti un bene, perché suscitano l’istinto buono alla generosità e soprattutto  sono un richiamo al fatto che la dimensione umana è fatta di limite e di domanda. Il “tu” davvero è un pronome amico.