In queste settimane mi sono accaduti un paio di fatti dolorosi che, come primo impatto, mi hanno fatto venire la voglia di allontanarmi, almeno nel sentimento e nel giudizio, da una compagnia che frequento da tempo. Riflettendo su questi eventi e su quale risposta sollecitavano in me, mi è venuto spesso in mente un bambino di dieci o undici anni a cui ho amministrato la prima comunione durante un pellegrinaggio in Terra Santa.

Eravamo a Cafarnao, sul Lago di Galilea. Proprio dove Gesù aveva vissuto nella casa di Simon-Pietro e dove aveva fatto il suo lungo discorso sull’eucarestia, insistendo sulla sua identità come Pane della Vita disceso dal cielo che uno doveva mangiare per avere la vita eterna. Aveva insistito così tanto su questo punto da non lasciare alcuno spazio a interpretazioni metaforiche e da scandalizzare perciò molti dei suoi, che per questo si erano allontanati da lui. Quelli che rimasero, lo fecero solo perché Lui aveva “parole di vita eterna” e perché avevano creduto e conosciuto che Gesù era “il Santo di Dio”.

Prima di chiamare il bambino avanti per ricevere la sua prima comunione, l’ho interrogato.  Gli ho fatto vedere il pane e vino, e poi ho spiegato come attraverso la preghiera eucaristica recitata dal sacerdote quel pane e vino diventano corpo e sangue di Gesù. Poi gli ho chiesto se, quando il pane e il vino diventano corpo e sangue di Cristo, lo diventano sul serio, veramente, o solo più o meno, solo in un certo senso. Lui ci ha pensato su e poi ha risposto, ragionevolmente: “Più o meno, come se lo fosse”.

Ho accettato senza sorpresa né disapprovazione la sua risposta e ho affermato che la nostra ragione da sola ci porta solo fin lì, ad accettare solo metaforicamente quello che afferma Gesù su questo mistero. Poi ho indicato me stesso, il suo papà, e il leader del gruppo — un cristiano molto carismatico e intelligente — e ho detto: “noi però siamo convinti con tutto quel che siamo, che quel che succede in questo sacramento è una trasformazione totale, reale e vera, ed è solo l’apparenza che rimane. Sapendo adesso questo, cosa dici tu?”. “È vero realmente — ha risposto lui —, è il corpo e sangue di Cristo”. Al che, ho replicato “quello che hai detto è molto ragionevole e molto intelligente, cioè leggere la realtà attraverso la compagnia che ti fa vivere di più il reale. Crescendo però devi sempre scoprire i motivi per dar credito a questa autorità”.

Come dicevo, tutto questo mi tornava in mente davanti a un brutto contraccolpo preso nel contesto di una compagnia che frequento e che spesso mi ha fatto conoscere ed amare la realtà molto più profondamente, passionalmente e coraggiosamente di quanto avrei mai potuto fare da solo. Come questo bambino, e come gli stessi apostoli, dovevo decidere di rischiare ancora di leggere e verificare la realtà seguendo una compagnia che mi sfida, oppure non farlo.

Viviamo in un mondo complesso che non si presta facilmente a un’inquadratura nostra che riesca a spiegare e maneggiare tutti i fatti che sorgono sia nella nostra vita personale sia su un piano più generale di società e comunità globale. Eppure vivere è il nostro compito primario. Ci vuole una compagnia la cui esperienza ci fa camminare con letizia sempre più grande dentro il mondo senza censura, facendoci sperimentare come i fatti che ci accadono fanno parte di una storia positiva, senza però pretendere di poter misurare tutto o eliminare la misteriosità drammatica che vi troviamo. Per poter camminare così, come ha scoperto il bambino, come accadde agli apostoli e come è capitato anche a me in questi giorni, si deve rischiare anche quando non si capisce bene.