Certo, pensare è irrinunciabile, fa parte della nostra struttura genetica. Senza conoscenza non c’è libertà, senza critica il potere ha il sopravvento: raggiunge il suo obiettivo quando disarma e riduce a nulla la potenzialità di un cuore intelligente.
Pensare non è però mai stato ripetere formule e accontentarsi di quel che un giorno era sembrata una grande conquista. Tutto cambia e quel che in un momento aveva portato la luce si trasforma in un pretesto per la pigrizia o peggio in una giustificazione per starsene comodi. La crisi borsistica cinese degli ultimi giorni è un buon esempio.
La caduta della Borsa è il sintomo che la seconda economia del mondo ha perso forza? Siamo spaventati dal fatto che il mercato di uno Stato comunista, che controlla la maggioranza delle riserve monetarie e dei bond sovrani occidentali, abbia perso slancio. E tiriamo un sospiro di sollievo nel sapere che i prezzi erano saliti troppo e che quindi siamo semplicemente di fronte a un “assestamento tecnico”: i grandi acquisti dei piccoli risparmiatori nel regime marxista avevano gonfiato troppo la bolla.
Davanti a un fenomeno come quello della borsa cinese è evidente che la globalizzazione, non diciamo la crisi, obbliga a ripensare a quella che negli anni ’90 sembrava una grande conquista: la lotta per “più società e meno Stato”. Prima e dopo la Caduta del Muro di Berlino era urgente evitare che le socialdemocrazie europee ereditassero lo statalismo dominante dall’altra parte della Cortina di ferro.
Quanto avvenuto ha lasciato molte ferite, anche nel pensiero, come l’allergia alla parola Stato. Tuttavia, la globalizzazione e la grande recessione iniziata nel 2007 hanno mostrato che è il momento di rivendicare il suo ruolo. È come parlare dei poveri: sembra che menzionarli comporti riscattare le utopie degli anni ’70, che li hanno usati come semplice pretesto. Quanto avvenuto nel passato non deve però impedirci di guardare e pensare agli eserciti di svantaggiati che abbiamo sotto il naso.
Quanto avviene al binomio Stato/mercato accade anche al binomio libertà/verità. Gli anni ’90 hanno insistito molto sul valore della verità, in risposta al soggettivismo sessantottino che esaltava la libertà senza limiti. Dopo aver denunciato le minacce del relativismo e affermato l’oggettività, il terrorismo a inizio secolo ci ha costretto e pensare. E ci siamo accorti, provocati dal jihadismo, che c’è un modo di affermare la verità profondamente inadeguato, quello che si fa senza tener conto della libertà e della razionalità.
Gli attentati di Parigi e la Terza guerra mondiale “a capitoli”, che ha per protagonista l’Isis, sembrano chiederci un passo in più: il nemico non è fuori dai confini, ma sono i nostri stessi giovani a lottare a fianco degli islamisti. La saggia Europa si è trasformata in una fabbrica di nichilisti. Il binomio verità/libertà si rivela insufficiente e sembra necessario intendere la verità come relazione.
I binomi sono quasi infiniti. Negli anni ’90 e nei primi Duemila veniva indicato altro come decisivo: i valori senza l’avvenimento da cui sono nati sono parole al vento. Ora restano pochi segni dei riferimenti morali illuministici: basta passeggiare in una qualsiasi scuola media per accorgersi che menzionare i fondamenti della Repubblica (libertà, fraternità, uguaglianza) è come parlare aramaico antico. Non si affronta la sfida semplicemente segnalando che coloro che vivono così fanno parte di una “identità sminuita”. Occorre ammettere che molte formule non servono più. Non si può ricorrere a termini cristallizzati in vecchie categorie come natura/cultura o universale/particolare. Perlomeno se vogliamo rispondere con intelligenza alle richieste che ci sono, per esempio, nei nuovi diritti.
È comprensibile che il concetto di natura, specialmente per come è arrivato fino al XXI secolo, sia percepito come una prigione, dato che presuppone un’esperienza dell’universale ormai estinta, per quanto si impegnino i pochi filosofi e giuristi rimasti. È inutile fustigare la soggettività particolarista o il genere costruito con la volontà senza rendere concreto il valore della differenza, senza riformularla in nuovi termini.
Bisogna sì pensare, ma senza lasciarsi guidare dalle abitudini del passato, sottomettendosi al giudizio del presente, il tribunale che libera la vera tradizione.