Ai molti frequentatori delle discoteche, la morte di un giovane ragazzo per una pasticca di ecstasy, mandata giù in una serata trascorsa al “Cocoricò” di Riccione, appare come un incidente di percorso, un esito tragico da ascrivere alla malasorte. Tuttavia, non sembra affatto contestabile una tesi ben diversa: la morte di questo ragazzo non è dovuta alla sfortuna, ma è la tragica conseguenza di un comportamento a rischio, per il quale la possibilità di un esito fatale era ampiamente prevedibile. Chi gliel’ha venduta va arrestato e chi è il proprietario del locale va richiamato alle proprie responsabilità.

Tuttavia, il caso non è chiuso. Esiste infatti una scoperta “irresponsabilità” che sembra attraversare tutti i protagonisti di questo dramma: irresponsabilità di chi assume una dosa fatale di mdma, irresponsabilità di chi gliela vende (un suo compagno di scuola), irresponsabilità di chi stupidamente condivide una tale avventura e irresponsabilità di chi tollera simili derive di comportamento.

Conviene partire dalla realtà, colta nella sua forma più immediata. Parliamo allora di un ragazzo che non abbiamo perso per disgrazia, ma perché ha creduto a chi, compresi i suoi amici, gli proponeva di acquistare una pasticca da sciogliere nell’acqua, per provocarsi, subito e senza mediazioni, quell’euforia estrema che costituisce un supporto prezioso per una serata in discoteca. Lamberto era dei nostri, era parte della nostra Italia, del nostro Paese e ce lo siamo fatti scivolare via, trascinato da questa sottocultura che riduce il desiderio di divertimento all’euforia comunque raggiunta. Ma ce lo siamo fatti trascinare via anche da una deriva culturale che sembra aver cinicamente oscurato tutti gli altri possibili modelli di esistenza.

Questa sotto-cultura dell’evasione euforica intesa come sostituto dell’umano desiderio di divertimento, non abita negli scantinati delle periferie povere, né costituisce la caratteristica di un’area di dropouts sganciati dal mondo e veleggianti nei paradisi alternativi. Al contrario è insediata stabilmente nelle città economicamente più sviluppate, nei corridoi delle scuole secondarie del centro storico come di quelle della periferia, tra i ceti culturalmente più favoriti come tra quelli più penalizzati. La si può rintracciare serenamente insediata un po’ ovunque, negarlo è da stolti.

Questa sotto-cultura è diventata cultura dominante, cioè modello interpretativo della realtà nettamente prevalente su qualsiasi altro. Per ritrovarsene invischiati non c’è affatto bisogno di avere subito traumi familiari, né di aver perso il posto di lavoro o avere frequentato circuiti alternativi. Il ricorso all’alcol e alla droga sono perfettamente coerenti con una ricerca del benessere ridotto a semplice evasione: una riduzione dell’io che costituisce lo scenario principale su quale si tessa gran parte dell’attuale cultura del divertimento.

Alcol e droga si presentano come euforizzanti alla portata di tutti: facili da trovare e facili da assumere. La stessa facilità con la quale circolano, il consenso implicito del quale godono, la tolleranza assolutamente palpabile della quale sono circondati – siamo a un passo dalla legalizzazione delle droghe leggere – contribuiscono a smantellare i pochi freni inibitori rimasti a contrastarli.

Una tale sottocultura dell’evasione euforica non arriva a caso, non mette radici se non trova il terreno adatto. Non c’è infatti alcun dubbio che la droga come l’alcol non siano che le forme estreme ed esasperate di modelli di vita basati su principi puramente acquisitivi, dove il benessere e la felicità non si conquistano attraverso un progetto di vita e vivono nelle pieghe di questo, ma, una volta ridotti alla semplice evasione euforica, si acquisiscono attraverso l’acquisto delle merci giuste e la frequentazione dei posti adeguati.

Lo sviluppo di una tale sotto-cultura è stato direttamente proporzionale al venir meno delle altre visioni dell’esistenza, alla messa in soffitta dei valori della relazione e della realizzazione, del costruire e dell’edificare. La cultura dell’evasione euforica è tanto più dominante e sembra valere come l’unica che conti quanto più l’universo delle relazioni vitali sembra rendersi evanescente, le prospettive di realizzazione appaiono insidiate dal cinismo dominante, qualsiasi ricerca della propria professione, acquisendo le competenze che si rendono necessarie, sembra rivelarsi illusoria.

Accanto al chiedersi chi abbia venduto la droga a Lamberto, vale allora la pena di domandarsi chi abbia ridotto l’umano desiderio di realizzazione alla tragica pantomima dell’evasione euforica; chi abbia insidiato la speranza di una gioia umana che tutti meritiamo riducendola alla ricerca spasmodica dello spazio immaginario e allucinatorio delle sensazioni indotte per via chimica; chi e cosa, attraverso quali canali e quali degradi, è arrivato a imporre, al posto di un desiderio di vita in abbondanza, la semplice percezione di un’euforia posticcia, al posto della felicità reale, la sua simulazione illusoria.