Papa Francesco ci ricorda sempre che il Dio dei cristiani è un Dio misericordioso.
Un Dio che si è incarnato nella storia ed è venuto nel mondo per prendere su di sé i nostri peccati e salvarci; che ha camminato al nostro fianco, parlando una lingua, usando le immagini del suo tempo per farsi capire.
Nel tempo dell’indifferenza, dove tutto è uguale a tutto, la misericordia non è un generico colpo di spugna, un’alzata di spalle, un dichiarare che l’errore non esiste. Al contrario, non c’è misericordia se non si da importanza all’altro, alla sua storia, alla sua situazione. Se non ci si ferma ad ascoltare e medicare. Che è esattamente ciò che in questo tempo nessuno fa più.
Se non vogliamo farci un idolo a misura delle nostre esigenze è da qui che dobbiamo partire, per capire come muoverci in un mondo complesso, disorientato e ri-orientato dalle tante forme di fondamentalismo che ci circondano: scientista, tecnoeconomico, religioso.
È in questo difficile cammino che Papa Francesco ci sta accompagnando con le sue catechesi, appena riprese. Dicendoci che non dobbiamo avere paura ma fede, e l’umiltà di tornare all’essenzialità del Vangelo. Che ci dice che Dio è amore, e dunque non si può amare Dio senza amare il prossimo. Per questo leggiamo, in Lc 6,36 “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro”. Dio è amore, e la misericordia è il linguaggio dell’amore.
Il rischio del “compromesso” col mondo ha da sempre accompagnato la storia della Chiesa. Ma chi più di Gesù si è com-promesso (da “promettere insieme”, “obbligarsi reciprocamente”) col mondo? Accettando il travaglio della nascita e l’agonia della morte più atroce?
Il metodo che ci ha consegnato non è naturalmente “cedere al mondo”, ma farsene lievito. Stare nel mondo, portando una logica nuova, capace di trasformare. Compito difficile, ma entusiasmante.
Tra l’universale astratto del principio disincarnato da un lato e la dittatura del dato di fatto, la ratifica dello status quo dall’altro, sta l’universale concreto, attento alla storia, ai volti, al “tu”. Capace di parlare alle persone nelle loro vite, prima di tutto accogliendole: solo dentro la relazione di accoglienza è possibile aiutare le persone a uscire dalla prigione del peccato e farle rinascere a vita nuova. Evitando di alimentare la cultura dello scarto, dell’esclusione.
Non perché il giudizio non serva. Ma perché scopo del giudizio è favorire la pienezza della vita.
Il noi della Misericordia è un noi inclusivo, consapevole della fragilità di ciascuno. Ascolto e comprensione, accoglienza e abbraccio sono lo stile della misericordia, il suo linguaggio.
È la tenerezza del padre che attende il figliol prodigo a braccia aperte sulla porta, e non ha bisogno di un interrogatorio di verifica per valutare il suo grado di pentimento. In ogni caso, fa subito ammazzare il vitello grasso.
Nella convinzione che proprio quel gesto di accoglienza possa spazzare via anche le ultime ombre. Ogni pecora che torna all’ovile va festeggiata. Tornare significa già aver capito dove sta la vita, la verità, dopo aver errato (nel duplice senso di vagare e sbagliare).
La paura del compromesso col mondo è tipica di un atteggiamento difensivo che perde l’eccedenza in nome di un malinteso senso della prudenza, e che soprattutto rivela poca fede nella forza della verità: non siamo noi che la difendiamo, la verità si difende da sola! Possiamo solo cercare di non tradirla, di farla risplendere attraverso quel diamante sempre un po’ opaco che ciascuno di noi è; di percorrere gioiosamente la via che ci indica e cercare di essere contagiosi. La Misericordia non è un debole assecondare il mondo, ma un esprimere il segno del nostro essere soprannaturale, del nostro essere a immagine di chi ci ha creati.
L’atteggiamento denunciato da Nietzsche del risentimento come fondamento della morale cristiana è una tentazione in realtà sempre presente, che va combattuta. La tentazione di ripagare ciascuno con la propria moneta. Hai sbagliato? Ora paghi. Sei uscito di casa per andare a goderti la vita? Non vorrai essere trattato come chi è sempre rimasto qui.
Niente di più lontano dalla logica del Vangelo. La logica dell’eccedenza, della libertà dallo schema arido del do ut des, dove anche chi ha lavorato nella vigna solo l’ultima ora riceve la stessa mercede di chi ha fatto giornata.
La parabola del padre misericordioso è chiarissima nel mostrare quanto l’atteggiamento “giustizialista” sia misero. Comprendiamo la motivazione del figlio primogenito, ma nel farlo ne sentiamo anche la grettezza. È per questa via che Gesù ci educa. L’alternativa alla misericordia (lasciarci toccare il cuore, tocco senza il quale ogni nostra conoscenza sarà astratta) è la miseria. Se il cuore non c’è più, siamo miseri.
Esercitare la misericordia ci educa. Ci rende più capaci di gustare la gioia del Vangelo.
Di fronte alle ormai moltissime situazioni di famiglie in difficoltà, ferite, disfatte e ricomposte Papa Francesco raccomanda la via dell’inclusione: i separati, i risposati non sono scomunicati. Pensando soprattutto ai figli che devono crescere. La Chiesa dalle porte aperte accoglie chi, allontanatosi, ha capito che questa è la vera casa.
Un cammino aperto da Gesù, e una linea ben espressa da san Giovanni XXIII: “quanto al tempo presente, la chiesa preferisce usare la medicina della Misericordia invece di imbracciare le armi del rigore” (Gaudet mater ecclesia 16).
Se la Misericordia è la verità fondamentale della nostra fede, contrapporre la via della verità e quella della misericordia è dia-bolico.
È dentro questa unità profonda, ascoltando e pregando, che la chiesa sta cercando di attraversare questo tempo difficile e curare le ferite di chi ha sbagliato ed è disposto al cambiamento. Come ha insegnato Gesù, che è via, verità e vita.
@GiaccardiChiara