Una vera costante nella storia dell’Italia moderna e contemporanea è quella delle politiche per il Mezzogiorno, fatta di tentativi e fallimenti che dovrebbero lasciare moniti importanti. Qualche giorno fa sono stati presentati i dati dell’annuale Rapporto sul Sud dello Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) da cui è emerso che “il Sud scivola sempre più nell’arretramento: nel 2014 per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è ancora negativo (-1,3%) e il divario di Pil pro capite è tornato ai livelli di 15 anni fa”. Il direttore dello Svimez, Riccardo Padovani, ha affermato che per uscire da questa situazione occorre fare riferimento alla “straordinaria esperienza di discontinuità che, nel dopoguerra, aprì la strada all’impetuoso sviluppo degli anni 60, con una strategia di intensa politica dell’offerta, mirata ad assegnare al Mezzogiorno il ruolo di fulcro dello sviluppo italiano”.
Eppure, se si fa un po’ di memoria storica, si scopre che proprio dagli anni Sessanta in poi la Cassa del Mezzogiorno ha buttato via nel Sud migliaia di miliardi di lire di origine pubblica per fare industrie petrolchimiche in Sicilia, spianare gli ulivi a Gioia Tauro senza saper bene per cosa, fare imprese di biotecnologie mai decollate a Lamezia Terme, inventare posti di lavoro per forestali in Calabria e postini in Abruzzo, dar vita a enti locali che offrono servizi con il triplo del personale di altre parti d’Italia, costruire programmi di formazione che non servono a formare ma a dare lavoro a chi li eroga, dar vita a sistemi sanitari che spendono il 10% del Pil a fronte del 7% nazionale e del 5,8% di alcune regioni e spesso di cattiva qualità.
Non si tratta della solita sterile polemica di un certo leghismo contro il Sud: molti dei soldi pubblici della Prima Repubblica sono andati a imprenditori del Nord per costruire nel Meridione, senza veri piani di investimento a lungo termine, con progetti velleitari privi di solidità e finanziati a pioggia che hanno lasciato dietro di sé ruderi industriali. Molti palazzinari del Nord, solo per ricevere generose e scriteriate sovvenzioni, hanno deturpato le stupende coste del Sud senza aver dato vita a un sistema turistico stabile, eco-compatibile e lasciando in giro piccoli e grandi ecomostri. E se giustamente si vuole lottare contro la mafia ci si deve chiedere quanto il proliferare della spesa pubblica l’abbia alimentata. L’esito è sotto gli occhi di tutti: il più grande fallimento e spreco della storia repubblicana, con vaste aree del Meridione che per questa insipienza sono rimaste ancor più sottosviluppate una volta che i soldi pubblici sono venuti a mancare.
Per questo la denuncia dello Svimez, se vuole semplicemente spingere perché si ricominci a distribuire soldi a pioggia nel Meridione d’Italia, non risolverà assolutamente nulla e — anzi — rimanderà solo l’affronto del problema. E allora?
Qui veniamo al secondo punto: quello di una visione lungimirante sul ruolo che il Sud può ricoprire. E’ infatti venuto il momento di chiedersi: qual è la natura e la specificità del Meridione d’Italia? Adesso, ancora più che venti, trent’anni fa, si può capire che il Sud non è la periferia di Roma e del Nord d’Italia. E’ invece, secondo un’intuizione secolare che risale addirittura ai normanni, il cuore del Mediterraneo, oggi luogo di guerre, ma domani zona di potenziale importante sviluppo. I Paesi rivieraschi del Sud del Mediterraneo, tra i più giovani del mondo, sono molto motivati ad affrancarsi dal sottosviluppo attraverso l’istruzione e la creazione di nuove imprese. Perché non fare del Sud Italia, con le sue università secolari, il luogo di formazione di questi giovani? Perché non proporsi di formare la classe dirigente e i giovani imprenditori di quei Paesi?
E ancora: cosa hanno in più le località turistiche di altri Paesi affollate da viaggiatori di tutto il mondo rispetto a quelle del nostro Sud in cui natura, arte, cucina e cultura sono inimitabili? Occorre smetterla di pensare che il turismo sia necessariamente scempio edilizio: con un programma ragionato può invece rilanciare zone uniche al mondo.
C’è infine un altro fatto, epocale, che può fare del nostro Sud il centro e non la periferia dell’Europa: l’allargamento del Canale di Suez, inaugurato proprio ieri, che rende ora più conveniente portare le merci attraverso il Mediterraneo invece di circumnavigare l’Africa per raggiungere i mercati del Nord Europa. Se si pensa a come si sia sviluppato il Far East — Cina, Giappone, Sud Est asiatico — si capisce meglio che occasione imperdibile ha il Meridione d’Italia per avvantaggiarsi del cambiamento di flusso dei commerci mondiali. In questo contesto ha senso pensare a investimenti pubblici strutturali, magari imparando finalmente a usare i fondi europei. E’ un delitto cincischiare per anni nel fare porti, servizi logistici, rete stradale e ferroviaria: questo tergiversare ha fatto sì che grandi operatori stranieri abbandonassero l’idea di investire a Gioia Tauro o a Taranto per scegliere la Grecia.
Nemmeno questo impegno però può bastare. Non è colpa delle cattive istituzioni o della minore spesa pubblica se i talenti delle persone non sono valorizzate, e se per qualità e abbandoni scolastici le regioni del Sud sono molto distanti dal Nord e dai Paesi più sviluppati. Quel che è assente in quasi tutte le denunce, per lo più ammalate di vecchia ideologia statalista, è la coscienza che il vero fulcro di un riscatto sociale ed economico è una rivoluzione anti-assistenzialista del sistema scolastico, che valorizzi il merito, promuovendo l’autonomia e la responsabilità, unici veri fattori di qualità secondo gli studi internazionali. E questa valorizzazione dei talenti può arrivare fino al lavoro.
E’ possibile squarciare l’assistenzialismo come si fece anni fa con la legge De Vito e con la successiva società per lo sviluppo dell’imprenditoria presieduta da Carlo Borgomeo, iniziativa che, nonostante i suoi risultati e meriti, fu abbandonata. Dopo centocinquant’anni dalla politica di rapina e colonialismo del neonato stato sabaudo e cinquanta dagli sciagurati interventi dall’alto della Prima Repubblica occorre innanzitutto guardare cosa è il Sud e, come suggerisce il principio di sussidiarietà, sostenere quel che lì è già nato e può nascere. Altrimenti speriamo che, come disse Edoardo Bennato in una sua canzone, l’ammalato scappi prima che dotti, medici e sapienti (e scrittori) ricomincino con le loro analisi.