Vanno ben oltre i confini della Russia le recenti manifestazioni di intolleranza nei confronti di opere d’arte accusate di turbare la coscienza dei fedeli. È un fatto che risulta evidente non appena si consideri con quale accanimento infierisca oggi contro l’arte il terrorismo fondamentalista, che subito dopo gli esseri umani colpisce i monumenti del passato, e con quale accanimento infierivano ieri contro l’arte i totalitarismi, che di tutto facevano per asservirla e per eliminare gli artisti che difendevano la propria libertà.
La furia iconoclasta è, forse, dopo l’eliminazione fisica di un uomo, la manifestazione suprema del nichilismo. Vanno rilette e meditate in questo senso le parole del Messaggio con il quale Paolo VI si rivolse agli artisti, l’8 dicembre 1965, il giorno dopo la chiusura del Vaticano II: «Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione». E si resta davvero ammirati di fronte a questa grandezza dell’arte, non solo per la sua capacità di farci superare la disperazione, ma anche e soprattutto per il suo legame con la verità, con quella verità che oggi è sempre più messa in discussione o perché si dice che non esista o, ancor di più, perché si crede che sia inevitabilmente violenta o che meriti di essere difesa con la violenza, come ha creduto in Russia chi ha danneggiato opere d’arte che avevano resistito al totalitarismo, o come afferma in ogni parte del mondo chi crede che la difesa, legittima e dovuta, della propria identità meriti l’esercizio della violenza.
Davvero è così? E per non parlare in astratto, davvero la verità è tradita quando la Chiesa chiede di rinunciare ad ogni esercizio della violenza per difenderla e chiede perdono per la violenza che certi suoi figli hanno esercitato in passato?
L’atteggiamento di Paolo VI nei confronti dell’arte è, da questo punto di vista, molto istruttivo e va ben al di là dei confini di una questione puramente estetica. Prima ancora del Messaggio, c’è un altro documento, la predica che lo stesso Paolo VI tenne durante la messa celebrata nella Cappella Sistina per la comunità degli artisti il 7 maggio 1964, in occasione della solennità dell’Ascensione; allora Paolo VI anticipò sicuramente ogni richiesta successiva di perdono, quando con parole commosse disse: «Vi abbiamo fatto tribolare, perché vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori […]. Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci! E poi vi abbiamo abbandonato anche noi […] siamo ricorsi ai surrogati, all'”oleografia”, all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa […] dove l’arte e la bellezza e — ciò che è peggio per noi — il culto di Dio sono stati male serviti».
Parole chiare ed inequivocabili, che non possono far dimenticare però quelle che le precedono, che sono una non meno chiara riaffermazione della verità: «Voi sapete che portiamo una certa ferita nel cuore, quando vi vediamo intenti a certe espressioni artistiche che offendono noi, tutori dell’umanità intera, della definizione completa dell’uomo, della sua sanità, della sua stabilità. Voi staccate l’arte dalla vita, e allora… Ma c’è anche di più. Qualche volta dimenticate il canone fondamentale della vostra consacrazione all’espressione; non si sa cosa dite, non lo sapete tante volte anche voi: ne segue un linguaggio di Babele, di confusione. E allora dove è l’arte?».
E ascoltando questa domanda dobbiamo sentirla con tutto il peso delle parole che la introducono, nelle quali viene messo in questione tutto l’umano, la sua definizione, la sua integrità, la sua immutabilità, la sua irriducibilità alle mode del momento o alle imposizioni di qualsiasi potere.
Ed è una questione che tocca a cinquant’anni di distanza il nostro impegno quotidiano per la verità; con un tono completamente diverso da quello che potrebbe indurci a una difesa rabbiosa e spietata della verità, perché il Papa, accusando le cadute dell’arte, si era messo in discussione per primo, denunciando non un nemico esterno, ma il cattivo servizio che la Chiesa stessa aveva reso a Dio. La verità non viene più difesa accusando gli altri, ma richiamando innanzitutto se stessi alle proprie responsabilità.
L’impegno per la verità non è più determinato e definito dall’esito della battaglia per essa. Cosa farò io dipende solo da me e dalla mia affezione a una verità che non ha bisogno di me per essere difesa o creata, ma deve essere solo testimoniata. Anche cosa faranno gli altri è tutto lasciato alla loro libertà, ma sarà una libertà tanto più responsabile perché nessuna violenza avrà più alcun alibi.