Oggi più che mai dopo la decisione di Berlino di aprire le frontiere, ci si chiede cosa accadrà di tutta quella fiumana di gente in fuga e cosa cambierà nelle società europee che la accoglieranno.

Ogni vita umana va salvata: il suo valore inviolabile, su cui si fonda la civiltà occidentale, sembra in questi giorni prevalere. E, come ha detto papa Francesco, dovrà significare non solo tollerare ma anche accogliere. Il che implicherà aiutare tante persone a inserirsi, trovare una casa, luoghi di educazione per i figli, un lavoro certo e dignitoso. Questo vale per tutti ma soprattutto per l’ultima ondata di profughi siriani, nigeriani, somali vittime di guerre non da loro volute, provocate dai fondamentalismi ma esplose anche per gravissimi errori e connivenze dei Paesi occidentali.

Due giorni fa, nel suo discorso sullo stato dell’Unione davanti al Parlamento di Strasburgo, il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker ha affrontato con decisione la questione: “Non dimentichiamoci che il nostro è un continente vecchio colpito da un declino demografico. Avremo bisogno di talenti. Bisogna affrontare le migrazioni in un altro modo: non più come un problema da eliminare, ma una risorsa da gestire in modo efficace”. Accogliere conviene? Si può fare e in che modo?

Diversi economisti in questi giorni hanno detto che le migliaia di profughi che si stanno riversando in Europa saranno la risposta agli annosi e gravi problemi economici dei paesi occidentali, come quello del sistema pensionistico. Come ha riportato Bloomberg View, l’Europa avrebbe bisogno di 42 milioni di nuovi europei entro il 2020 e di oltre 250 milioni in più nel 2060 per tenere in piedi il sistema pensionistico del continente. Secondo un rapporto recente dell’Unione europea oggi ci sono quattro persone in età lavorativa per ogni pensionato; nel 2050 saranno ridotte a due. In una sua intervista a ilsussidiario.net, il professor Gian Carlo Blangiardo ha stimato in 14 milioni il numero degli immigrati che sarebbe necessario al nostro Paese per evitare che la popolazione diminuisca. In Italia nel 2050 ci saranno 20 milioni di pensionati sostenuti dai contributi di meno di 38 milioni di persone. Il problema si ripercuote gravemente sui conti dello Stato: se il rapporto fra il numero dei pensionati e le persone in età lavorativa continua a crescere il Paese rischia di saltare. C’è dunque bisogno di giovani come sono in maggioranza gli immigrati.

E c’è di più: il problema non è solo quantitativo, ma riguarda anche il livello delle competenze. La Germania pensa di utilizzare gli immigrati non solo per fare i lavori più umili ma valorizzando le qualifiche di molti di loro, di inserirli come quadri, dirigenti, imprenditori.

Del resto è quello che fanno già altri Paesi europei e nordamericani anche con emigrati occidentali e italiani: offrire loro un lavoro qualificato e corrispondente a preparazione e abilità.

In questo modo ci si apre a un approccio culturalmente e politicamente nuovo sull’accoglienza che implica ad esempio più “politiche attive”, investimenti in formazione, insegnamento della lingua, valutazione degli skills che magari molti sbarcati hanno già.

Si può fare lo stesso nel nostro Paese?

In Italia, come risulta dai dati Istat dello scorso maggio, c’è una forte richiesta di manodopera specializzata soprattutto in ambito tecnologico e scientifico con livello di istruzione elevato e competenze tecnico-meccaniche: responsabili della produzione industriale, analisti, progettisti di software, tecnici dei cantieri edilizi. Ma anche professioni sanitarie in ambito fisioterapico e riabilitativo. Secondo l’analisi annuale del Sistema informativo Excelsior di Unioncamere e del ministero del Lavoro, nel 2013 i posti di lavoro che non sono stati occupati erano circa 47 mila. Inoltre, la spinta all’imprenditorialità degli immigrati residenti ha permesso un saldo positivo delle imprese italiane negli ultimi tre anni. 

Nonostante questo, siamo ancora poco capaci di valorizzare le competenze degli immigrati se è vero che in Lombardia, la Regione maggiormente in grado di offrire lavoro qualificato, sempre secondo dati analizzati dal professor Blangiardo, solo il 49,1% degli immigrati nel 2012 svolgeva una professione adeguata alla sua formazione scolastica.

Siamo ancora fermi a pensare agli immigrati e ai profughi come un problema, invece che come una risorsa per lavori qualificati se non imprenditoriali e riserviamo a chi viene nel nostro Paese i lavori che i giovani italiani non hanno voglia di fare, quelli più umili.

Per questo chi ha una preparazione adeguata e pensa di potere aspirare giustamente ad altro non vuole fermarsi in Italia. 

In fin dei conti, il nostro sistema produttivo e in particolare molte microaziende riservano la stessa sorte ai laureati italiani: non li valorizzano, anche se sono altamente qualificati e risultano competitivi sul mercato internazionale. Quindi molti se ne vanno.

Non riuscendo ad accogliere chi arriva da lontano, ci rendiamo conto di come facciamo fatica a vedere e valorizzare quel che abbiamo già tra di noi.