La democrazia non si basa sul principio della maggioranza, ma sull’esperienza della carità, intendendo con questa parola anche le varie formule opportunamente generate dalla secolarizzazione: solidarietà, stima per l’altro, tutela dei diritti fondamentali… Il dibattito sulla possibile secessione della Catalogna è un buon caso per dimostrarlo.
A pochi metri dalla Camera dei Deputati, nella Plaza Mayor di Madrid, vivono da diversi mesi dei mendicanti. Si vestono e mangiano grazie all’assistenza di alcuni volontari. La Camera non si manterrebbe in piedi senza quel che accade a Plaza Mayor. Senza uguaglianza o senza l’impegno della società civile, lo Stato sociale, e con esso la democrazia, sarebbe crollato. Ma ora stiamo parlando di un’altra cosa: l’esperienza della dignità causata dall’essere affermato e dall’affermare l’altro, senza la quale non esiste una democrazia forte. “La democrazia moderna non si basa sulla volontà popolare, ma sui diritti ragionevoli della dignità umana”, ha scritto recentemente il giurista Ruiz Soroa.
I sostenitori dell’indipendenza della Catalogna ritengono di avere dalla loro parte il diritto all’autodeterminazione, oltre a essere la maggioranza. Vedremo quel che accadrà nelle elezioni del 27 settembre. I sondaggi indicano una maggioranza, di uno o due deputati, favorevole alla secessione. Insieme a una prevalenza di voti contrari all’indipendenza. Siamo quindi di fronte a una società divisa a in due, con un leggero vantaggio dei catalani che vogliono essere anche spagnoli.
È evidente che le elezioni regionali non sono il procedimento corretto per proclamare l’indipendenza ed è altresì abbastanza chiaro che non esiste il diritto naturale alla secessione. Il diritto naturale è stato sempre esaltato per giustificare certe necessità storiche. È logico che con la decolonizzazione si parlasse di diritto all’autodeterminazione. Ma i testi della Nazioni Unite non tutelano più questa pretesa (l’ultimo in questo senso è la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni del 2007). Siamo quindi arrivati a un punto in cui è inutile chiamare in causa il diritto internazionale. Più decisivo e urgente sembra riuscire a capire cosa può mantenere in piedi la nostra convivenza.
Una certa tradizione liberale identifica la democrazia con la volontà popolare. E definisce quest’ultima come il volere della metà più uno dei cittadini, espresso mediante le urne. Democrazia è elezioni, voto e, persino, rivoluzione. Si tratta di una concezione influenzata dall’esaltazione della volontà che si è verificata in Occidente sin dal tardo Medioevo. Ma in società sempre più complesse, pluralistiche e globalizzate è diventata difficile da sostenere. Di fatto, lungo tutto il XX secolo il costituzionalismo ha generato democrazie più complesse.
Ora non si tratta di mettere in discussione la volontà popolare, ma di riconoscere che si esprime in molti modi. I sistemi costituzionali hanno completato la virtualità della maggioranza. Prova ne è lo sforzo fatto per fornire un’effettiva tutela dei diritti fondamentali, per valorizzare la vita delle istituzioni, per cercare il consenso o per proteggere l’obiezione di coscienza. Non si tratta di nulla di nuovo. La rivoluzione liberale statunitense è stata fatta così. La Costituzione del 1787 non è stata promulgata senza una preventiva ratifica in tutti gli Stati. E quando si legge “Il Federalista”, la rivista dei padri fondatori americani, vi si nota la sua ossessione non nel raggiungere l’unanimità, ma nell’avvicinarsi a essa. Solo le democrazie più immature usano la maggioranza come un’arma e fomentano una polarizzazione che cresce vorticosamente. È una dinamica che genera una violenza difficile da cancellare.
C’è un testo che spiega bene che la democrazia va oltre. È il parere reso pubblico dalla Corte suprema del Canada nel 1988, quando si è pronunciata sul valore del referendum secessionista tenutosi nel Quebec. I giudici dicono che l’argomento usato per il superamento delle disposizioni della Costituzione è “persuasivo”, perché fa appello alla maggioranza. “Tuttavia – assicurano i giudici canadesi – un’analisi più approfondita rivela che questo argomento mal interpreta la democrazia costituzionale. I canadesi non hanno mai accettato che il proprio sia un semplice sistema a regola maggioritaria, dato che è molto più ricco”.
Che cosa significa che la democrazia è molto più ricca? Nel caso della secessione, secondo i giudici canadesi, vuol dire richiedere una volontà chiara e qualitativamente indiscutibile di indipendenza. Su questo ci sarà molto da discutere. Lo spirito della democrazia è ricco non solo perché esige maggioranze rafforzate, ma perché si nutre dell’affermazione dell’uomo, della consapevolezza che l’altro – al di là di quel che pensa – è fondamentale per la mia crescita personale.
La democrazia è ricca quando non solo tollera, ma accoglie anche l’altro nei suoi valori e nella sua libertà. Ciò che conta non è quanta ideologia si condivide, ma il riconoscimento del desiderio umano (felicità, giustizia, significato) comune. Una regola che serve per chi vuole una Catalogna indipendente e per quelli che sostengono una Catalogna spagnola.