Domenica scorsa sono stata invitata da un sacerdote ortodosso parroco nel centro di Mosca a partecipare alla festa della sua chiesa. Al momento ho accettato ben volentieri ma, andando alla liturgia, mi sono chiesta un po’ incuriosita di quale festa si trattasse, visto che la chiesa è dedicata alla Trinità, che si celebra in altra data. Era il 25° dell’ordinazione sacerdotale di padre Aleksej, che ha ricevuto gli ordini sacri esattamente il 9 settembre 1990. La coincidenza di questa data con l’uccisione di padre Aleksandr Men’ salta immediatamente all’occhio, qui a Mosca, dove la sua memoria è stata omaggiata persino da Putin, nell’ambito delle celebrazioni ufficiali che si sono svolte in questi giorni.
Nella chiesa affollata, dove tra gli altri ho riconosciuto giornalisti, uomini di cultura e artisti famosi che si accostavano alla comunione con la familiarità di gente che si trova a casa sua, era evidente che nonostante i problemi e i mali che affliggono le istituzioni ecclesiastiche, esiste un lavorio sotterraneo dello Spirito che porta frutti insospettati, che lasciano ogni volta stupiti, senza parole. Al cospetto di Dio, in quella stessa mattina di venticinque anni fa padre Aleksandr e padre Aleksej si offrivano totalmente in dono, uno sotto i colpi del suo assassino, l’altro abbracciando il sacerdozio. Ci sarebbe l’uno senza l’altro? Il giovane hippy, partito dalla protesta contro il grigiore e l’ipocrisia del sistema sovietico, avrebbe incontrato la bellezza della fede e della Chiesa senza i libri e l’umanità semplice e intera di padre Men’, innamorata di Cristo? Ricordo bene il silenzio attonito seguito alla notizia di quella morte, il vuoto incolmabile che ha lasciato un uomo – l’unico forse, in quel momento – che avrebbe potuto cambiare il corso della storia russa di quegli anni. Eppure, oggi ci accorgiamo che proprio il suo sacrificio l’ha reso radicalmente presente: a venticinque anni di distanza possiamo affermare che non se n’è mai andato, che in tutti questi anni non ha mai cessato di guidare a Cristo, in Cristo, innumerevoli persone, e che la vita continua a traboccare in lui e intorno a lui. Qualche settimana fa mi hanno raccontato di una donna internata in un istituto psichiatrico di Karaganda, in Kazachstan, che leggendo la sua biografia ha riscoperto un senso alla propria esistenza, ha capito che la sua vita lì è una «missione», e si è addirittura messa a tradurre quel testo (il libretto che le avevano regalato era in italiano!), perché possa fare del bene anche agli altri degenti.
«Che ti importa, tu pensa solo ad amare…»: così, confessando una delle sue parrocchiane il giorno prima di morire, padre Men’ aveva troncato tante sue obiezioni sulla «giustizia» nei rapporti con il prossimo. Questa stessa misericordia che anima tanti gesti di Papa Francesco, dal perdono di chi si pente dell’aborto, alla facilitazione delle pratiche di riconoscimento della nullità del matrimonio e all’imperativo di accogliere i profughi (per citare solo gli ultimi), l’ho risentita nel «regalo» che domenica padre Aleksej ha chiesto ai suoi parrocchiani: aiutarlo ad accogliere una volta al mese un gruppo di ragazzi gravemente disabili per la liturgia e un momento di festa, andandoli a prendere in istituto, aiutandoli ad entrare in chiesa e a partecipare alla funzione, allestendo per loro la mensa in fondo alla chiesa (in parrocchia non esiste un altro spazio senza barriere architettoniche…).
Non per un senso moralista del dovere, ma per condividere la gioia di un incontro che, come ha detto padre Aleksej durante l’esuberante festa seguita in parrocchia alla liturgia, «ha trasformato il dramma degli anni 90, in cui avevamo perso le vecchie idee senza che ci avessero proposto un’alternativa credibile, nell’esultanza di vedere Cristo vivo e presente, e la sua misericordia che si china sul nostro nulla».