“Mi sono trasferito in Australia sei anni fa, guadagno circa il triplo di quello che guadagnavo in Italia”. “Laurea, colloqui, stage di tre mesi in multinazionali, assunto in Italia, ma poi ho scelto la Germania per la sicurezza di carriera secondo criteri meritocratici, validità del contratto, benefit, servizi sociali”. “Sto per firmare il mio primo contratto a tempo indeterminato in Irlanda: via dai contratti capestro, dagli stage non retribuiti che avevo in Italia”. Sono alcune testimonianze di italiani all’estero raccolte già alcuni anni fa dal sito di Repubblica, “Italiani all’estero, la vostra storia”.
Su ilsussidiario.net abbiamo già parlato dell’emigrazione intellettuale italiana. Abbiamo deciso di tornare su questo tema ed approfondirlo, dati alla mano, visto che si tratta di un fenomeno destinato a crescere se, come svela una recente indagine, oltre il 70% di giovani tra i 18 e i 32 anni dichiara che andarsene via dall’Italia sia ormai una necessità ed è pronto a farlo già nel 2016.
Va detto innanzitutto che il fenomeno non interessa solo il nostro Paese: secondo i dati Oecd 2015 in ben quattordici nazioni nel mondo, il 10% dei laureati emigra per trovare lavoro; l’11% tra i Paesi più sviluppati, il 13% nell’Unione europea e l’8% in Italia.
Una ricerca condotta insieme al prof. Furio Camillo di AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario che coinvolge la gran parte delle università italiane e oltre il 90% dei laureati, ci offre adesso un quadro più approfondito della questione.
Innanzitutto il trend: dall’inizio della recente grande crisi scoppiata nel 2008, la quota dei laureati italiani che si sono trasferiti a lavorare all’estero è in costante aumento (nel 2013, a 5 anni dalla laurea, questo numero ha toccato il 5,3% del totale).
Le motivazioni. Se il fenomeno dell’emigrazione intellettuale è comune a tutta l’Europa, in Italia sembra maggiormente legato alla mancanza di opportunità professionali in patria, come afferma il 38% degli intervistati, mentre il 24% sostiene di emigrare perché vuole condizioni migliori di quelle che ha a casa, con punte del 63% nel meridione e del 48% per chi ha studiato scienze umanistiche, rispettivamente l’area geografica e il settore disciplinare più deboli sul mercato del lavoro.
Le destinazioni sono i Paesi più sviluppati: l’82% nell’Unione europea, in particolare nel Regno Unito, in Francia e in Germania, mentre un 10% si è recato nel Nord America. Pochissimi di loro sono occupati in filiali straniere di aziende italiane, circa un terzo invece lavora in società estere e un altro terzo in aziende multinazionali (soprattutto ingegneri), mentre circa un quarto sono impiegati in università o centri di ricerca (soprattutto laureati scientifici).
Questo ci porta a un dato estremamente interessante, quello sul livello della preparazione, che testimonia come i nostri giovani siano fortemente competitivi. La metà degli intervistati ritiene che la sua professionalità sia uguale a quella dei colleghi stranieri e il 42% la stima ancora più elevata.
Questo dato è confermato dal fatto che un terzo degli intervistati segnala difficoltà solo relativamente alla lingua e allo stile di vita, ma più di un terzo non incontra alcuna difficoltà e solo il 7% sperimenta difficoltà in termini di competenze tecniche e professionali. Del resto, la maggior parte di loro sembra essersi preparata durante l’università con periodi di studio e per la stesura delle tesi e per il 74% dei laureati con la partecipazione ad almeno un programma post-laurea internazionale. Questa capacità di inserimento nel mercato del lavoro estero fa sì che solo l’1,5% degli intervistati rimpianga la decisione di essere andato via dall’Italia e oltre l’80% degli intervistati si ritenga soddisfatto della scelta fatta. Circa il 70% di loro non ha intenzione di tornare in patria.
Alla luce di queste statistiche, la “fuga di cervelli” sembra contraddire i luoghi comuni spesso ripetuti dai media italiani e l’appellativo di eterni bambinoni dato ai nostri giovani, incapaci di staccarsi dal nucleo familiare. Sembra invece porre una domanda seria sulla capacità del nostro comparto economico di apprezzare le nuove leve e valorizzarle a beneficio di tutto il sistema.
Il prosieguo della ricerca mette in luce in modo netto il fatto che il mercato del lavoro estero sa maggiormente apprezzare i laureati italiani rispetto al mercato del lavoro di casa nostra. In media gli stipendi di coloro che emigrano sono più elevati di mille euro di quelli di coloro che lavorano in Italia. Anche la variabilità è molto più grande (859,8 contro 536,2) a segnalare che all’estero la qualità è maggiormente gratificata mentre, di contro, il mercato del lavoro nostrano tende ad appiattirla.
Con un calcolo più sofisticato che elimina le differenze di preparazione, classe sociale, provenienza geografica, genere, tra laureati che lavorano in Italia e all’estero, quindi a parità di condizioni, il dato che si ottiene è 774 euro in più al mese che percepisce in media un emigrato, vale a dire il 54,8% in più, con punte che raggiungono per certi gruppi omogenei nelle loro caratteristiche anche i 938 euro (i provenienti dal Sud Italia, soprattutto insegnanti, con elevata flessibilità per quanto riguarda il trasferimento, genitori con basso livello di istruzione e classe sociale e buono ma non eccellente rendimento scolastico). Questo dato è indice del fatto che emigrano soprattutto i giovani con genitori di classe sociale e istruzione più elevati. La differenza inoltre aumenta se si considerano gli stipendi in valore reale, vale a dire al netto del loro potere di acquisto.
Le conclusioni della ricerca sono quindi abbastanza dirompenti. Il malato nel nostro Paese non è innanzitutto il sistema universitario, ma troppe piccole e medie imprese che spingono i giovani laureati a lasciare casa per l’incapacità di mettere a frutto le loro competenze.
La fuga dei cervelli è dunque generata dal fatto che dato il livellamento verso il basso del mercato del lavoro sempre più giovani, con un comportamento del tutto razionale, vanno dove sanno che sono più apprezzati, anche a costo di reinventare completamente le loro vite. Se vogliamo tenere i nostri laureati dobbiamo smettere di ripetere che val più la pratica della grammatica e pensare che oggi per condurre un’azienda non serve molta istruzione. Stiamo attenti a non seguire l’esempio del manzoniano don Ferrante, che a furia di ripetere che la peste non esisteva ne morì.